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www.sbilanciamoci.info – 09 luglio 2013
Più che di un reddito di cittadinanza si dovrebbe parlare di un reddito di base incondizionato: un salario sociale legato ad un contributo produttivo oggi non riconosciuto
Sia sul sito di Sbilanciamoci che su il manifesto sono apparsi alcuni articoli critici in materia di reddito di cittadinanza (vedi, tra gli altri, gli articoli di Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di cittadinanza, e Lunghini, Reddito sì, ma da lavoro). In questa sede, vorremmo chiarire alcuni principi di fondo per meglio far comprendere che cosa, a nostro avviso, si debba intendere quando in modo assai confuso e ambiguo si parla di “reddito di cittadinanza”. Noi preferiamo chiamarlo reddito di base incondizionato (Rbi) ed è su questa concezione che vorremmo si sviluppasse un serio dibattito (con le eventuali critiche). Le note che seguono sono una parte di una più lunga riflessione che apparirà sul n. 5 dei Quaderni di San Precario.
La proposta di un Rbi di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego, elaborata nel quadro della tesi del capitalismo cognitivo, poggia su due pilastri fondamentali.
Il primo pilastro riguarda il ruolo di un Rbi in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La disoccupazione e la precarietà sono qui intese come il risultato della posizione subalterna del salariato (diretto e eterodiretto) all’interno di un’economia monetaria di produzione: si tratta della costrizione monetaria che fa del lavoro salariato la condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. In questa prospettiva, il ruolo del Rbi consiste nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava ironicamente Marx, il “suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del Rbi – in quanto strumento e non fine a e stesso (spesso si fa confusione al riguardo) – aumenterebbe il grado di autonomia rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che oggi ha perso la sua centralità storica.
Da questa concezione derivano due corollari essenziali.
In primo luogo, l’importo monetario del Rbi deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà se non il 60% del salario mediano – non medio) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità subita sotto la forma di precarietà. In questa prospettiva, il Rbi permetterebbe inoltre un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa, in un contesto in cui per una parte crescente della forza-lavoro l’orario settimanale di lavoro non è più oggi quantificabile, né misurabile.
In secondo luogo, la proposta di Rbi si iscrive in un progetto più ampio di rafforzamento della logica di demercificazione dell’economia all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni, sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc.) e adeguandole alle nuove forme di lavoro, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precari non riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale oggi in vigore)
Il secondo pilastro della nostra concezione del Rbi consiste nel considerarlo come un reddito primario, vale a dire un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta.
Infatti, contrariamente agli approcci in termini di fine del lavoro, la crisi attuale della norma fordista dell’impiego è lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di valore e di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo cognitivo non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso ad una misurazione ufficiale, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello della fabbrica come della società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.
La prima rinvia alla dinamica che vede la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) e incorporato essenzialmente negli uomini (il cosìdetto capitale umano) superare la parte del capitale materiale nello stock di capitale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita. Ora, questo fatto stilizzato significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. In secondo luogo, viene evidenziato un altro fatto sistematicamente omesso dagli economisti dell’Ocse: i settori motori del nuovo capitalismo della conoscenza corrispondono sempre più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Si tratta di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro è dominante e si potrebbe sviluppare potenzialmente un modello di sviluppo alternativo fondato sulla produzione dell’uomo attraverso l’uomo e la centralità di servizi universali forniti al di fuori di un logica di mercato. Tutti questi fattori, e gli interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare introducendovi, per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica della concorrenza e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica del valore. La cosiddetta crisi del debito sovrano è stata e resta il pretesto per accelerare queste tendenze. Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità macro-economica delle politiche pro-cicliche e dei piani d’austerità richiesti dai mercati finanziari e dalla celebre Troika (Fmi, Ue, Bce).
La seconda evoluzione concerne il passaggio, in numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori. In questo contesto, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione durante l’orario ufficiale di lavoro diventa soltanto una frazione del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza e saperi che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro, si attenuano, e ciò avviene con una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione oggi non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini. Essa, infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore finanziario.
Dall’altro, per questa stessa ragione si creano un conflitto e una tensione crescenti tra questa tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.
Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva allora occuparsi delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la massima quantità di plusvalore. Il taylorismo grazie all’espropriazione dei saperi operai e alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni fu a suo tempo la soluzione adottata. Nella fabbrica fordista, il tempo effettivo di lavoro, la produttività, il valore e il volume della produzione sembravano perfettamente predeterminati in modo “scientifico”, anche se in realtà la catena di montaggio non avrebbe mai potuto funzionare senza uno scarto importante tra le consegne prescritte e l’attività reale. Il solo vero rischio per il capitale era che questa implicazione paradossale dell’operaio-massa si tramutasse in insorgenza antagonista. Come è avvenuto. Ma tutto cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non può più essere prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il vecchio dilemma si ripropone quindi in nuovi termini: non solo la crisi della cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro rende nuovamente il capitale dipendente dai saperi dei lavoratori, ma quest’ultimo deve ottenere un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di vita. La “prescrizione della soggettività“, l’obbligo al risultato, la pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questo problema per certi aspetti inedito. Le diverse forme di precarizzazione del rapporto salariale sono infatti anche e soprattutto uno strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro.
Nel capitalismo contemporaneo, cognitivo e finanziarizzato, la precarietà sembra stare al lavoro come, nel capitalismo industriale, la parcellizzazione delle mansioni operaia stava al taylorismo.
La stessa logica spiega perché il processo di dequalificazione della forza lavoro sembra aver ormai ceduto il passo a un massiccio fenomeno di declassamento, dove con questo concetto si designa una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione e di impiego rispetto alle qualificazioni (certificate dal diploma) e alle competenze effettivamente messe in opera dal lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa.
In definitiva, il Rbi si presenta al tempo come un reddito primario per gli individui e un investimento collettivo della società nel sapere, via maggior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete, oggi in grado di incrementare la produttività sociale che in Italia viene a mancare. La sua instaurazione permetterebbe, congiuntamente alla riappropriazione democratica dei servizi collettivi del Welfare, la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.
Sblilanciamoci.info – 2 luglio 2013
All’introduzione di un reddito di base dovrebbe accompagnarsi quella di un salario minimo. Pubblichiamo un testo estratto dall’ultimo libro di Andrea Fumagalli, “Lavoro male comune”
Perché le forze sindacali e non liberiste (queste ultime più propense allo smantellamento e alla privatizzazione di ogni intervento di welfare) sono perplesse e poco propense a inserire misure di reddito di base incondizionato nel proprio programma di governo. Che la proposta di un welfare fondato su un unico intervento di sostegno al reddito venga ritenuta politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale non stupisce più di tanto, anche se, (….), garantire un reddito stabile aiuterebbe la crescita della produttività e della domanda di consumo (quindi, in ultima analisi, anche del profitto). Il vero problema è che una regolazione salariale basata sulla proposta di reddito di base incondizionato (magari unita a un processo di accumulazione fondato sulla libera e produttiva circolazione dei saperi) mina alla base la stessa natura del sistema capitalista, ovvero la necessità del lavoro e la ricattabilità di reddito come strumento di dominio e controllo, oltre alla violazione del principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi la conoscenza).
Se il diritto al lavoro viene sostituito dal diritto alla scelta del lavoro, la maggior libertà che ne consegue può assumere connotati eversivi e potenzialmente sovversivi.
La posizione contraria a qualsiasi proposta di reddito di base da parte dei sindacati deriva invece da due principali fattori: da un lato, buona parte del sindacato italiano (non solo quello confederale ma anche quello di base) è ancora fortemente imbevuta dell’etica del lavoro e accetta difficilmente di dare un reddito a chi non lavora, soprattutto se incondizionato e non finalizzato all’inserimento lavorativo; dall’altro, viene visto con preoccupazione il fatto che il reddito di base possa influire negativamente sulla dinamica salariale (effetto sostituzione) e ridurre gli ammortizzatori sociali.
Riguardo al primo punto, la posizione dei sindacati, non dissimile da quella delle controparti, rispecchia il ritardo – sia culturale sia politico – con cui le forze sociali prendono atto dei cambiamenti intervenuti nel passaggio dal capitalismo fordista al biocapitalismo cognitivo. L’idea che bisogna guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte rispecchia proprio quell’ideologia del lavoro di cui abbiamo discusso nel primo capitolo, sino a declinarsi nella “falsa” parole d’ordine di “lavoro bene comune”.
Il secondo punto pone invece una questione più importante. Il rischio che l’introduzione di un reddito di base possa indurre una riduzione dei salari è effettivamente reale. Per questo una simile misura deve essere accompagnata dall’introduzione in Italia di una legge che istituisca il salario minimo, ovvero stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di una certa cifra, a prescindere dal lavoro effettuato. Inoltre, occorre anche considerare che la garanzia di reddito diminuisce la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché i precari, i disoccupati e i lavoratori con basso salario possano sviluppare conflitto sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del licenziamento o del mancato rinnovo del contratto, senza nessun tipo di tutela, è troppo forte. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose e a un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e quindi più forti. E permetterebbe di chiedere il miglioramento delle proprie condizioni lavorative e contrattuali.
Infine, in tema di ammortizzatori sociali, è necessario prendere atto che attualmente essi sono del tutto inadeguati e iniqui. Ad esempio, solo un quarto di chi è realmente disoccupato possiede i requisiti per accedere al sussidio di disoccupazione: ovvero, avere lavorato 52 settimane negli ultimi due anni e aver pagato i relativi contributi. Tali parametri sono diventati un lusso che la maggior parte dei lavoratori precari non è in grado di garantire. L’indennità di mobilità viene invece applicata solo ai lavoratori che escono da una situazione di cassa integrazione.
A sua volta, le diverse forme di cassa integrazione esistenti (ordinaria, straordinaria e in deroga) sono applicate in modo diverso e selettivo a seconda del settore dell’impresa, della dimensione, delle qualifiche, con l’effetto di creare pesanti discriminazioni sul suo utilizzo. Immaginare un unico ammortizzatore sociale a carico della fiscalità collettiva, uguale per tutti, che vada progressivamente a sostituire quelli vecchi, sembra ragionevole, anche perché consentirebbe di ridurre quel cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dai contributi sociali a favore di un maggiore salario in busta paga.
Riassumendo, la proposta di un reddito di base incondizionato come strumento di remunerazione di quella produzione sociale e valorizzante che oggi sfugge alla regolamentazione del lavoro si fonda su quattro parametri non emendabili. Il primo requisito è l’individualità, dal momento che il lavoro è tendenzialmente individuale, anche se poi fa riferimento a una cooperazione sociale e a beni comuni come la conoscenza.
Il secondo parametro è la garanzia di continuità nella distribuzione del reddito, che deve essere erogato a tutti coloro che operano in un territorio, a prescindere dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione. Il tema della residenzialità è delicato, perché fa riferimento al concetto di cittadinanza, fondato sull’idea di ius soli o ius sanguinis. In Italia e in buona parte d’Europa il concetto di cittadinanza è fondato sullo ius sanguinis, per cui un figlio di immigrati nato in Italia non ha automaticamente la cittadinanza italiana in quanto il diritto di sangue prevale sul diritto di suolo. Ne consegue che il requisito della cittadinanza deve essere sostituito da quello della residenzialità.
Il terzo parametro è quello dell’incondizionalità: garantire continuità di reddito significa garantire continuità di remunerazione di un’attività produttiva (diretta o indiretta che sia) di ricchezza già svolta e quindi non richiede in cambio alcuna ulteriore contropartita. Garantire continuità di reddito a prescindere dalla condizione lavorativa non è quindi una misura assistenziale. Il quarto parametro consiste nel finanziamento del reddito di esistenza sulla base della fiscalità sociale progressiva (cioè un aumento dell’aliquota al crescere dello scaglione di reddito).
È questo il punto principale, poiché dalle forme di finanziamento dipende la natura compatibile o non compatibile del reddito di esistenza in un ambito di capitalismo cognitivo. A partire dal 2012, su questi temi si è sviluppata in Italia una campagna dal basso che raccolto le 50.000 firme necessarie per portare in parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare a favore dell’introduzione di un reddito minimo garantito.
Si tratta di un risultato non scontato nell’attuale situazione politico-culturale dell’Italia e che fa ben sperare per il futuro.
Di fatto ciò significherebbe modificare l’art. 1 della costituzione italiana. Non più «l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro», bensì: l’Italia è una repubblica fondata sul diritto di scelta del lavoro.
AngoloB, Trasmissione di Radio Città del Capo, intervista gli economisti Andrea Fumagalli (Rete San Precario e BIN) e Tito Boeri (lavoce.info) sul reddito minimo:
http://radio.rcdc.it/archives/reddito-minimo-boeri-governo-letta-e-governo-del-disfare-121824/
MicroMega – marzo 2005
1. Italiani/europei. Quello che sto per raccontare potrebbe suonare a molti incredibile. In Gran Bretagna a partire dai 18 anni chi non ha un lavoro e non ha risparmi per più di 12.775 euro ha diritto all’ Income-based Jobseeker’s Allowance, a circa 300-350 euro mensili per un periodo di tempo illimitato . A questa cifra si devono aggiungere l’affitto dell’alloggio (Housing Benefit) e tutta una serie di assegni per i figli. In Francia, invece, per avere diritto al Revenu minimum d’insertion (Rmi) bisogna aver compiuto 25 anni (non si applica la condizione dei 25 anni per i disoccupati con figli). Il Rmi prevede (nel 2005) l’integrazione del reddito a 425,40 euro mensili per un disoccupato solo, che diventano 638,10 euro se in coppia (proprio così, laicamente: couple); 765, 72 se la coppia ha un figlio, 893,34 per due figli e 170, 16 euro in più per ogni altro figlio. Una coppia con tre figli arriva quindi ad avere più di 1.150 euro di Revenu minimum d’insertion.
Nel nostro paese non si è mai saputo bene che cosa sia nella realtà dei paesi europei il reddito minimo. Non siamo consapevoli di rappresentare (in compagnia della Grecia) un’eccezione in Europa. Se ci fosse stata una volontà di occultamento di questa realtà, essa non avrebbe potuto raggiungere meglio il suo obiettivo. Ciò che in Europa è il minimo, la base, il punto di partenza, da noi costituisce l’oggetto di indagini sociologiche: ciò che dovrebbe costituire il punto di partenza di un programma di sinistra (che voglia proporsi almeno di recuperare il tempo perduto) rimane ancora da noi una realtà avvolta nelle ombre di un iperuranio di provincia.
Il reddito minimo è un sussidio riconosciuto a tutti come diritto soggettivo: ne beneficiano coloro che non hanno un lavoro o hanno un reddito basso. In Germania la riforma restrittiva introdotta nel 2005 indica che tra 16 e i 65 anni si può disporre dell’Arbeitslosengeld II di 345,00 euro al mese. In più i costi dell’affitto e del riscaldamento (Miete und Heizkosten). Riporto un esempio preso direttamente da un fonte ufficiale tedesca. Una famiglia composta da due figlie di 12 e 14 anni, nella quale il padre è disoccupato e la madre ha uno stipendio da un lavoretto part-time di 750 euro lordi e le due figlie 308 euro al mese di Kindergeld (che è un versamento che riguarda i figli), è considerata dalla riforma bisognosa di un incremento di reddito. Fatti i dovuti calcoli, questa famiglia ottiene un’integrazione del salario che la porta a disporre complessivamente di 1665 euro al mese netti .
Se questi dettagli sono poco noti, più noto è invece il racconto del rovinoso tramonto dello stato sociale europeo. Anche perché legioni di novelli Oswald Spengler, vedendosi troppo stretti nel ruolo di giornalisti, non perdono occasione per dimostrare il loro straordinario orecchio per ogni possibile accenno di Untergang : di declino, di decadenza. Di nuovo però ci si limita a rimanere nel generico, ai grandi scenari, e si trascurano i dettagli. Che però sono interessanti. Ad esempio, dopo la riforma restrittiva del 2005, i disoccupati tedeschi di lungo periodo non hanno più – in aggiunta al normale sussidio – i soldi per i mobili e per i vestiti. Non potranno neanche più usufruire del sussidio all’estero senza una ragione attinente alla ricerca di un lavoro (non possono andare, in altre parole, in vacanza con il sussidio).
Di qui la domanda spontanea: disoccupazione e precarietà significano la stessa cosa in Francia (o in Portogallo) e in Italia?
In Italia non solo non c’è niente di simile, ma – fatto questo da non sottovalutare – qui da noi riesce a molti già difficile credere a quanto appena letto. Gli increduli non si rattristino, ci siamo passati tutti: questo è il genere di informazioni più trascurate in assoluto dai nostri media. Così ci riesce difficile credere che in Spagna Zapatero progetti di portare il salario minimo interprofessionale a 600 euro per 14 mensilità, ma non facciamo alcuna difficoltà a credere che da noi si possa lavorare «regolarmente» in un call center per soli 300 euro mensili (o addirittura, come dimostra un’inchiesta del Manifesto, per 100 euro). Come si è potuti arrivare a questo?
A proposito di telefoni: in Francia, se siete disoccupati, «vous bénéficierez de la réduction sociale téléphonique» . Réduction sociale téléphonique? La «riduzione sociale sul telefono». Cielo! Ma questo, non sfugge a nessuno, che è linguaggio da centro sociale, da no global: possibile che i francesi siano giunti a tanto? Il loro welfare prevede non solo il fatto, ma persino l’espressione «riduzione sociale». Che rozzezza! E pensare che noi li immaginavamo dediti ai profumi e alla moda. La giustificazione addotta è che il disoccupato non deve isolarsi: il telefono gli serve anche per trovare un lavoro. Cari amici francesi, vi prendete troppo sul serio!
2. Un ritardo surreale. Agli increduli si prepara però un nuovo colpo. Non è da oggi o solo da ieri che il reddito minimo garantito è una realtà per la Gran Bretagna, la Germania e i Paesi scandinavi. Basti dire che Eric Hobsbawm sostiene nel Secolo breve che il reddito minimo avrebbe avuto un ruolo nel rendere i soldati inglesi più attaccati alla loro patria e dunque anche più combattivi.
In forza di questa lunga tradizione, inoltre, e a dispetto del luogo comune del tramonto del welfare europeo, già nel lontano 24 giugno 1992 l’«Europa» aveva invitato gli Stati membri ad adottare il reddito minimo nei loro sistemi di welfare. Ma la questione, in Italia, non è mai assurta veramente alla dignità del pubblico dibattito. Questo fatto suscita stupore nello stupore. Una cosa infatti è nominare di sfuggita il reddito minimo d’inserimento, un’altra è spiegare bene che cosa è in Europa il reddito minimo d’inserimento. La raccomandazione 92/441 Cee sulla Garanzia minima di risorse impegnava già nel 1992 tutti gli stati membri ad adottare delle misure di garanzia di reddito come un elemento qualificante del modello di Europa sociale. Si apprende così che non c’è dunque solo Maastricht (e i fondi europei gestiti a pioggia). Ma vai a saperlo! Un’accelerazione di questa politica di sicurezza c’è stata nel 2000 con il vertice di Lisbona e di Nizza. Tanto per capire: anche il Portogallo e la Spagna hanno seguito la direttiva, mentre inadempienti sono rimaste l’Italia e la Grecia. E questo nonostante il fatto che, secondo un’indagine del Censis, ben il 93% degli italiani si dichiara favorevole ad «attivare un meccanismo di integrazione del reddito per disoccupati e percettori di bassi redditi» .
Molti non sanno che in Italia si è sperimentato una specie di reddito minimo d’inserimento in pochi comuni del Nord e in alcune zone della Campania. La sperimentazione ha avuto inizio con il governo Prodi, ed è stata interrotta dal governo Berlusconi. Solo in alcune zone della Campania è stata proseguita da Bassolino con i mezzi della Regione . Ma insomma, piccoli passi.
La Francia è arrivata molto in ritardo al reddito minimo rispetto all’Inghilterra o alla Germania: lo ha adottato “solo” a partire dal 1 dicembre 1988. Mitterand in persona ha presentato solennemente alla nazione francese l’adozione del Revenu minimum d’insertion social con una manifestazione alla Sorbonne, ad indicare il coinvolgimento del mondo intellettuale nella conquista di questo istituto . Da noi, quasi vent’anni dopo, se ne parla ancora tra addetti ai lavori. Un’inchiesta approfondita di carattere sociologico dovrebbe far luce sulle ragioni della perplessità italiana verso il reddito minimo. È possibile stilare una specie di casistica delle reazioni e delle obiezioni ricorrenti in Italia una volta che si sia posti di fronte a questa realtà. Dopo la meraviglia (la meraviglia davanti a una realtà condivisa da milioni di persone oltre le Alpi), la tendenza di solito è quella di ridurre l’ignoto al noto. Questa attitudine spontanea suggerisce sistematicamente di attribuire all’Italia una serie di difetti e problemi strutturali che renderebbero da noi impossibile qualcosa come il Rmi. Non ce lo meritiamo! Chi andrebbe più a lavorare? Oppure: aumenterebbe il lavoro nero! Ci dovrà pure essere, si pensa, una qualche Ragione Fondamentale che spieghi perché non si è adottato anche da noi il reddito minimo. È in sé, infatti, talmente poco credibile che possa non essere stata tenuta nel debito conto l’esperienza che hanno fatto gli altri paesi europei di problemi come la disoccupazione e la precarietà – che da noi sono gravissimi – che è comprensibile che si cerchi una Giustificazione.
Eppure, l’esperienza più che decennale degli altri paesi rimane come imbrigliata tra le vette alpine, e non riesce ad arrivare fin qui. Quello che si dice è poco, non ha colore né concretezza. L’idea che filtra da noi è che si tratti di misure dirette a contrastare la povertà, l’esclusione sociale. E qui immaginiamo, credo, delle situazioni limite: barboni, senza tetto. Per qualche oscura ragione non si distingue con chiarezza che il carattere universalistico di questi sussidi si rivolge per principio a tutti. Ma in Italia sembra quasi che solo con la giustificazione del soccorso dei poveri si possa accettare l’idea del reddito minimo. Le ragioni sono invece più complesse. Il reddito minimo è una delle ragioni che emancipa molto presto i figli dalle loro famiglie in molti paesi europei. I figli della mia padrona di casa in Inghilterra se ne andarono di casa raggiunti i 18 anni con il loro bravo reddito minimo. E la madre non se la passava affatto male: aveva un bel lavoro e una bella casa in uno dei migliori quartieri di Bristol. Certo, è vero, i suoi figli erano “poveri”, come sono “poveri” però la maggioranza dei diciottenni. Basterebbe riflettere sul fatto che hanno diritto al reddito minimo, in Gran Bretagna – come già detto – coloro che, oltre a non avere un lavoro, non superano i 12.775 euro di risparmi per capire che la parola “povertà” è equivoca. In Germania, come in Svezia, il 50% di coloro che ricevono il reddito minimo sono giovani sotto i 21 anni .
Una delle ragioni della freddezza italiana verso il reddito minimo è l’idea (diciamolo, detestabile e ridicola) che l’assistenza debba provenire dalla famiglia. In Inghilterra, invece, oltre al Child Benefit, «which is paid to parents», esiste l’Education Maintenance Allowance, il cui aspetto affascinante è di non essere un sussidio versato ai genitori ma ai figli, «direct into the students own bank account», nel loro conto bancario . In ogni caso, però, pur con tutta la nostra dedizione alla famiglia, noi spendiamo la metà di quanto spendono gli altri per la famiglia. In Francia le coppie (che lavorino o meno) con almeno due figli hanno diritto alle Allocations familiales: 115 euro al mese; con tre figli gli euro diventano 262 e se i figli sono più di tre a questa cifra vanno aggiunti 147 euro (per ogni figlio in più). Per quanto tempo? Fino al compimento del ventesimo anno di età. Come si ottiene il sussidio? Non occorre fare domande. Viene versato automaticamente. La Prestation d’accueil du jeune enfant (Paje) è invece un aiuto pensato per ogni nato, ma anche per ogni bimbo adottato o «accolto in vista dell’adozione»: varia da 138 a 211 euro. Per la baby sitter sono previsti altri soldi. Poi c’è la Allocation de rentrée scolaire: è concessa a chi non supera un certo reddito (16.726 euro l’anno per un figlio; 20.586 euro per due figli; 24.446 per tre figli). Ammonta a 257, 61 euro ed è versata a fine agosto per tutti i ragazzi che vanno a scuola. Serve per comprare libri, colori e quaderni. Anche per quanto riguarda l’affitto in Francia la condizione per usufruire dei contributi è che l’appartamento sia «decente e abbia una superficie minima, proporzionata al numero degli occupanti». Mancando queste condizioni, il disoccupato o chi ha un reddito basso, perde il diritto alla sovvenzione. Se poi si decide di ristrutturare il proprio alloggio, sia che si sia proprietari sia che si sia inquilini, si ha diritto al Prêt à l’amélioration de l’habitat, un prestito statale.
Persino con Margaret Thatcher al governo, il reddito minimo funzionava senza problemi. Questo lascia capire quanto bisogno abbiamo noi di “cose di sinistra”, se persino al tempo della Thatcher – almeno rispetto a queste questioni – gli inglesi stavano meglio di noi oggi. Non so quanti tra noi si rendano conto del fatto che la nostra situazione è imparagonabile a quella inglese, o francese, tedesca … perché è tra le peggiori in Europa: lo dice Eurostat. Da noi si trovano insieme questi fattori: maggior divario tra i redditi, maggior numero di disoccupati e precari, assenza totale di reddito minimo, affitti delle case alle stelle. Alla mancanza di un confronto positivo con gli altri sistemi europei ha contribuito anche un limite ideologico della sinistra italiana che si è trasformato in un limite cognitivo. La sinistra non poteva registrare dei fatti positivi in sistemi di cui si pensava comunque come alternativa. Ulteriore conseguenza è che, all’interno di queste analisi e delle relative categorie, tutte le vacche sono diventate nere: e si è persa l’individualità, l’assoluta specificità, del caso italiano.
3. Differenza tra indennità e reddito minimo d’inserzione sociale. Per non incorrere in equivoci e nelle trappole del gioco delle tre carte occorre distinguere indennità di disoccupazione e reddito minimo. Per il nostro discorso non interessa l’indennità di disoccupazione a favore di chi aveva un lavoro e lo ha perso, che esiste anche in Italia, ed è finanziata dai contribuiti sociali. Interessa, invece, il reddito minimo d’inserzione, che è finanziato nei paesi europei dalla fiscalità generale, e che in Italia non esiste.
La differenza è enorme. L’indennità di disoccupazione è un’assicurazione. Sicché, è vero che è prevista anche in Italia, ma attenzione: solo i lavoratori più «tipici» se la possono permettere, perché solo questi versano i contributi necessari. I precari, i lavoratori cosiddetti «atipici», coloro che ne avrebbero dunque più bisogno, non hanno, invece, alcuna indennità. Inoltre, l’indennità di disoccupazione dura (solo da pochissimo) un anno, dopo di che buona fortuna. Al contrario in Europa, il reddito minimo copre sia chi non ha ancora un lavoro sia chi ha perso il lavoro e non ha diritto all’indennità o perché l’ha esaurita o perché non ha versato i contributi. Nel Regno Unito la distinzione è chiara già nei nomi delle due diverse prestazioni: Contribution-based Jobseeker’s Allowance per l’indennità di disoccupazione e Income-based Jobseeker’s Allowance per reddito minimo garantito. Per la stessa ragione esiste l’Income support che è previsto, però, per chi lavora meno di 16 ore a settimana . Queste forme di sostegno del reddito, naturalmente, sono illimitate nel tempo.
Per avere l’indennità di disoccupazione in Italia occorrono almeno due anni di contributi, oppure 52 contributi settimanali negli ultimi due anni. In Francia per aver diritto all’indennità è necessario aver lavorato almeno 6 degli ultimi 22 mesi. L’ammontare dell’indennità viene stabilito con una media della retribuzione degli ultimi 12 mesi, secondo un sistema che salvaguarda i redditi più bassi. La durata dell’indennità varia da un minimo di 7 mesi ad un massimo di 60. A ciò si aggiungono circa 10 euro fissi al giorno, in determinate circostanze.
In Germania l’indennità di disoccupazione si chiama Arbeitslosenhilfe. Viene calcolata in base al netto dell’ultimo stipendio (il 60% e con figli il 67%), e non è una voce soggetta a tassazione. Fino al 2002 si aveva diritto alla sovvenzione dell’Arbeitslosenhilfe anche con un’occupazione di sole 12 ore alla settimana. Sarà sopravvissuta alla riforma restrittiva questa opportunità? Diciamo che per noi cambia veramente poco. La durata dell’indennità di disoccupazione varia dai 6 ai 32 mesi (per chi ha 57anni). Ma a partire dal 31.01 06 si porterà a 12 mesi con un massimo di 18 mesi per chi ha più di 55 anni. Dopo questi 12 mesi gli Arbeitslosen tedeschi dovranno accontentarsi dell’ Arbeitslosengeld II che di fatto è illimitata. Naturalmente, queste leggi si applicano anche agli stranieri che risiedono in Germania con regolare permesso di soggiorno. I siti ufficiali hanno immancabilmente apprestato delle spiegazioni per loro, traducendo la normativa in chiari punti in italiano, arabo, turco .
Un altro capitolo importante riguarda le condizione per ricevere il reddito minimo. Il disoccupato è aiutato a condizione che voglia lavorare in futuro. Ora c’è un problema che noi non ci poniamo. In Europa succede che il disoccupato possa ricevere delle offerte di lavoro addirittura dall’ufficio di collocamento. Non deve sfuggire un fatto essenziale: in queste nazioni imprevedibili e bizzarre, gli uffici di collocamento sono molto efficienti.
Ora la cosa essenziale è notare che il lavoro in ogni caso deve essere conforme alle qualifiche del lavoratore e può essere rifiutato senza perdere i vari sussidi qualora non rispondesse a queste qualifiche e se non rientrasse in determinati requisiti che sono definiti per legge. Ad esempio, se è troppo lontano dal proprio luogo di residenza. In Danimarca, a proposito di modello nordico, i disoccupati di lungo periodo hanno l’obbligo accettare il lavoro che l’ufficio di collocamento trova per loro, pena la progressiva diminuzione del sussidio.
4. Assenza dal dibattito pubblico. Lo si è detto, stupisce che una questione di grande rilevanza, come è, senza dubbio, quella del reddito minimo, non sia già da tempo un tema di pubblico dibattito e di pubblico dominio, ma rimanga un argomento confinato alle analisi sociologiche. Stupisce che la frase “il mercato del lavoro richiede oggi flessibilità” non si completi automaticamente con “e un reddito minimo garantito, come in tutti gli altri paesi europei”. Insomma, è un fatto politicamente rilevante che in Italia non sia abbia una rappresentazione adeguata di che cosa sia il reddito minimo in Europa. C’è poco da girarci intorno. È solo colpa dei mezzi di comunicazione di massa? Da quando, vent’anni fa, feci esperienza diretta di queste cose vivendo in Inghilterra, ho avuto sempre l’impressione che in Italia si vivesse chiusi in una sorta di realtà parallela incomunicante con il mondo circostante. Curiosamente, sappiamo tutto delle bizzarrie della monarchia inglese, grazie ai “gustosi” servizi dei tg nazionali: caccia alla volpe, monellate dei principotti, matrimoni e tradimenti, diari e scandali. Non interessa invece il fatto che, mentre disoccupazione e precarietà in Italia sono prive di una reale copertura che non sia la famiglia, in Inghilterra chi non lavora, chi ha un reddito basso, o anche solo un diciottenne con la chitarra in mano, viene spesato anche dell’affitto della casa.
Eppure, ben lungi dall’essere una fantasia di utopisti, il reddito minimo funziona piuttosto bene in Europa: tant’è vero che il problema della disoccupazione non è più, in queste remote nations of the world, quello dell’indigenza, ma quello di ridurre il rischio (comunque molto limitato) costituito dalla cosiddetta “trappola assistenziale” che spinge alcune persone a rimanere nell’assistenza piuttosto che a lavorare. Molti studi hanno però dimostrato l’ovvio, e cioè che in linea di massima rimangono nell’assistenza coloro che avrebbero avuto comunque bisogno di assistenza .
Ma il vero vantaggio del reddito minimo è che permette di ridurre il condizionamento della disoccupazione nella scelta del proprio futuro lavorativo. Il reddito minimo permette di guardare al lavoro sotto una prospettiva che è più legata alla scelta, che non alla necessità. Il problema del lavoro tende – in linea di massima – a riguardare più il ruolo sociale, l’aspirazione individuale che non la ricerca del pane quotidiano. Non è detto che una persona debba voler far il cameriere o l’operaio, a vita fino alla pensione. Una maggior mobilità unita a garanzie sicure può essere, almeno per qualcuno, un’occasione di migliorare la propria posizione. In Italia invece il mezzo (il lavoro) diventa il fine. Ed ecco la paradossale locuzione dei cosiddetti lavori “socialmente utili” oppure le più banali assunzioni clientelari. Il lavoro tende a confondersi con il welfare. È un errore dunque minimizzare l’assenza tutta italiana del reddito minimo come una banale diversità di interpretazione dello stato sociale. Questa mancanza sembra rivelare qualcosa di più importante, qualcosa che affonda le radici nell’impianto sociale e politico del nostro paese, ne rispecchia il carattere autoritario e clientelare, lontano da un modello anche solo “liberale”.
L’introduzione del reddito minimo non si scontra con insormontabili limiti economici. Lo dimostra il fatto che molti paesi lo adottano. Per certi versi (e sorvolando sulle differenze sul modo di intenderlo) il reddito minimo mette d’accordo economisti molto diversi tra loro. L’economista neoliberista e premio Nobel Milton Friedman ha sostenuto con forza negli Usa, oltre alla celebre «riduzione delle tasse», anche l’opportunità dell’introduzione del reddito minimo, portando dalla sua parte molti economisti. Dall’altra parte, però, sostenitore del reddito minimo è stato anche l’economista neokeynesiano, anch’egli premio Nobel, James Tobin. In Italia Tito Boeri è spesso intervenuto a sostegno dell’introduzione del reddito minimo nel nostro paese. Da un punto di vista filosofico Antonio Negri nel suo Impero ha sostenuto la fondatezza del reddito garantito in senso universale basandosi però ancora su un’idea di retribuzione (per un lavoro svolto ma non riconosciuto). Per il filosofo ed economista Philippe van Parijs (belga ma attualmente professore ad Harvard) e per il nutrito gruppo di economisti e intellettuali di ogni nazione europea riuniti nel BIEN, si dovrebbe andare addirittura oltre gli attuali sussidi di disoccupazione . Il Basic income, da riconoscersi a tutti, ricchi e poveri, occupati e disoccupati, vale semplicemente come principio di garanzia di libertà – della libertà di passare il tempo a fare il surf sulla spiaggia di Malibù come della libertà di lavorare. Per quanto possa sembrare strano, secondo van Parijs, questa soluzione costerebbe addirittura meno dell’attuale sussidio di disoccupazione ed eviterebbe il rischio della cosiddetta «trappola assistenziale», perché lavorare non significherebbe rinunciare al sussidio . La proposta del Basic income non può apparire nella sua giusta luce se non si tiene presente la realtà dei sussidi di disoccupazione in Europa. Il Basic income è per certi versi figlio dei sussidi di disoccupazione, ne rappresenta l’evoluzione, la radicalizzazione del principio. Si pensi per esempio al fatto che in Austria il reddito minimo è considerato chiaramente un diritto soggettivo . Naturalmente il dibattito teorico sul reddito minimo è molto ampio e complesso (ma qui non è questo che interessa): un altro punto di vista sulla questione è, ad esempio, quello di André Gorz .
5. L’etica protestante e lo spirito del welfare. L’idea dominante da noi è che in tema di welfare nessuno possa fare miracoli, con l’eccezione di alcuni paesi alieni, come la Danimarca, la Svezia, la Norvegia. Così, paradossalmente, l’esperienza scandinava ha avuto da noi l’effetto di nascondere tutto quello che avveniva nel resto d’ Europa. Gli scandinavi fanno miracoli, il resto del mondo è invece come noi. Proprio l’eccezionalità ha finito per suggerire che non sono paesi il cui esempio possa essere seguito. Sì è vero, hanno tante belle cose : ma sono pochi, hanno più risorse, sono protestanti e via discorrendo. Si tratta, come ricorda ad esempio Michele Salvati (MicroMega, 1/05 p. 48), di «paesi piccoli, socialmente molto omogenei, di cultura protestante, e con sindacati e partiti molto robusti, esempio di un modello ‘neo-corporativo’, (e dunque di élite colluse e autoreferenziali) di cui i politologi fecero un gran parlare alcuni anni addietro». Capisco il senso. Tuttavia, per autoreferenzialità neocorporative e collusioni partitiche noi non siamo da meno a nessuno, anche senza il welfare dei danesi. Il problema è che, indipendentemente dalla risposta che si possa dare al ruolo del protestantesimo nell’efficienza dello stato sociale, ad essere più avanti di noi non sono solo gli alieni scandinavi. L’Argomento demografico («sono pochi, dunque ricchi»); l’Argomento antropologico («i nordici sono rigidi, onesti e democratici per natura»); l’Argomento svizzero o elvetico («sono paesi chiusi che consumano in beata e piccina autarchia, misteriose risorse di cui solo loro dispongono») crollano di fronte alla Francia, alla Germania, alla Gran Bretagna, alla Spagna, al Portogallo, all’Austria. Crollano di fronte alle raccomandazioni inascoltate dell’Unione Europea. Anche l’Argomento autodenigratorio, semplice variante dell’Argomento antropologico («figurarsi in Italia che cosa succederebbe con il reddito minimo, nessuno lavorerebbe più o tutti lavorerebbero al nero»), vacilla se si considera che il reddito minimo è molto più trasparente delle pensioni di invalidità. E caso mai il discorso va rovesciato: proprio in un paese dove, come si dice, «la mafia trova lavoro», sarebbe opportuno asciugare il disagio sociale. Proprio in un paese disinibito al voto clientelare, sarebbe opportuno, contro le soluzioni discrezionali, fissare come diritto soggettivo il reddito minimo. Del resto è un discorso vecchio come il cucco. Il reddito minimo renderebbe gli individui meno dipendenti e più liberi: più liberi anche dai condizionamenti prodotti dalle nostre élite autoreferenziali a caccia di clientele e collusioni. Tra l’Eccezione nordica e l’Italia c’è un terreno intermedio: ed è a questo terreno intermedio che fa riferimento Jeremy Rifkin a proposito del Sogno europeo.
Nonostante si sia disposti a credere il contrario, l’Italia spende meno degli altri paesi in welfare. Non sempre i sistemi dei diversi paesi sono comparabili, ma un’idea generale i numeri la danno comunque. Secondo Eurostat l’Italia è tra i paesi Ue che dedicano meno risorse alla protezione sociale. In media, nel 2001 i Quindici dedicavano il 26,5% del proprio prodotto interno lordo (Pil) alle spese per la protezione sociale; percentuale che in Italia scende al 24,5% (undicesimo posto nell’Ue a 15). Il livello massimo si registra in Svezia (30,3%) ed il minimo in Irlanda (14,6%). L’Italia è in assoluto il paese che dedica la maggior parte delle risorse destinate alla protezione sociale alle pensioni (62,2% contro il 46,5% della media europea), ed è invece nelle ultime posizioni per la percentuale di risorse assegnate alle famiglie (4,1% contro 8%), ai disoccupati (1,6% contro 6,3%) e alle due funzioni alloggio ed esclusione sociale (complessivamente, 0,3% contro 3,6%).
Quante volte si è chiacchierato del problema del costo degli alloggi? Qui veramente i numeri parlano da soli. L’Italia spende un ridicolo 0,1%, mentre la Francia spende il 3,1% e l’Inghilterra il 5,5. Potrebbe far riflettere che a Portici c’è una densità di 13.322 abitanti per chilometro quadrato mentre a Hong Kong è di 6.314 . Proviamo a indovinare dov’è il problema?
Una società più giusta funziona anche meglio. Non è meno competitiva, ma più competitiva. Più giustizia (meglio che la Giustizia) coincide con più libertà. Lo dimostra anche il reddito minimo. In Europa chi non lavora temporaneamente può permettersi di aspettare, di cercare, di studiare e alla fine di trovare un lavoro più gratificante di quello che ha perduto. Il reddito minimo prefigura in questi paesi un rapporto con il lavoro diverso da quello a cui siamo stati abituati. La precarietà diventa anche un modo per guardarsi intorno e per scegliere. È una realtà della quale potrei portare molti esempi di amici e amiche francesi o inglesi … C’è chi con il reddito minimo ha potuto investire del tempo per la preparazione del concorso per insegnare nella scuola; chi ha potuto affrontare le incertezze della precarietà che comporta la carriera accademica. «Le Rmi» non ha permesso un periodo di vita nel lusso, ha però concesso loro il lusso di scegliere la propria vita. Al contrario, potrei fare il caso di una giovane studiosa italiana di manoscritti medievali, molto promettente, che oggi lavora come vigile urbano. A 28 anni, Guido partì per l’Inghilterra con alle spalle un corso di laurea in lettere non terminato e davanti il modesto progetto di imparare l’inglese per poi, forse, tornare in Italia. A 28 anni le opportunità gli sembravano (a torto) ristrettissime. Dopo aver studiato l’inglese in un bel college, pagando una quota ridotta del 75% in quanto disoccupato, si iscrisse all’università di Bristol. Gli riuscì poi di fare quello che in Italia non era riuscito a fare: laurearsi. E non solo. Lo lasciai che studiava l’inglese, lo ritrovai 15 anni dopo che insegnava all’università.
Gianni Perazzoli
Una nuova fede sta facendo proseliti tra le elite europee: quella nella flessibilità a tutti i costi e nella distruzione del contratto sociale con i lavoratori che ha tenuto insieme il continente dal dopoguerra. Estratti.
Conoscete la chiesa di San Precario? Anche senza guida non avrete difficoltà a trovarla, e una volta trovata avrete più di un motivo per disperarvi. Perché nella parrocchia di San Precario non c’è posto per la speranza. La grande maggioranza dei parrocchiani vi lavora per uno stipendio da fame per garantire i privilegi dell’alto clero. Un clero che ha sostituito la teologia con l’economia.
I dati sulla crescita scintillano nella parrocchia di San Precario. Il bilancio è sempre in attivo. Com’è possibile? Molto semplice: tagliando i salari e soprattutto vietando ogni forma di solidarietà. Basta con tutti quei costosi contributi sociali che bisognava pagare a pensionati egoisti, pigri disoccupati e malati immaginari. Evviva la minoranza privilegiata.
Com’è fatta la parrocchia di San Precario? L’edificio prevede solo dei muri senza finestre né tetto per proteggere i parrocchiani dalla pioggia o dal sole. Inutile cercare di scalare i muri, ci si rovinerebbe solo le unghie. Sopra l’altare aleggiano le lettere Tina, che in latino moderno vuol dire: There is no alternative – non c’è alternativa.
Ma non pensate che la parrocchia San Precario sia solo il frutto della fantasia di un poeta malinconico. Esiste veramente. A Milano nel 2004 c’è stata la prima processione con l’icona di San Precario. La cosa che colpiva di più era il fatto che il corteo era composto solo da giovani, neolaureati e nuovi disoccupati. Tutti giovani che imploravano clemenza ai piedi di San Precario.
Uno dei significati di precarius è: ottenuto con la preghiera o con la supplica. E di fatto i capricci di questo patrono sono imprevedibili. Oggi getta qualche moneta d’oro in Europa, domani le lancerà con gesto disinvolto ai cinesi o ai nigeriani. Questa si chiama “globalizzazione”. E la globalizzazione è il futuro.
La mai tesi è che la crisi economica e finanziaria che imperversa già da quattro anni in Europa è utilizzata per distruggere le basi della civiltà europea, lo stato assistenziale e la democrazia. Da chi è utilizzata la crisi? Dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea, ma probabilmente anche dal consiglio e, fuori dall’Europa, dal Fondo monetario internazionale, anche se in questa istituzione sta infuriando una lotta feroce sui suoi futuri orientamenti.
Nel frattempo in un numero sempre più grande di stati membri dell’Unione i politici si comportano da missionari, diffondendo il messaggio distruttore con cieco zelo religioso. E le file dei parrocchiani si ingrossano. Ogni giorno in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia si può osservare come questo tipo di economia stia soffocando la gioventù.
Nel novembre 2008 il sociologo politico più importante della Germania contemporanea, Jürgen Habermas, ha parlato su Die Zeit di evidente ingiustizia sociale. Un’affermazione che potremmo definire profetica. Le élite al potere hanno rescisso in modo unilaterale la loro grande convenzione tacita con il cittadino, secondo cui la classe dominante poteva accumulare tutta la ricchezza che voleva purché il cittadino qualunque potesse guadagnarsi da vivere e godere di un’adeguata sicurezza sociale. Oggi questo patto è stato rotto.
Secondo i presidenti della Bce Mario Draghi, della Commissione José Manuel Barroso e del Consiglio Herman Van Rompuy, la fine della crisi sta cominciando a prendere forma. Ma i mercati finanziari tengono l’Europa sotto pressione. E per quanto l’Europa si dia da fare, la situazione non cambierà. O cambierà solo per qualche ora, come la volta in cui la Spagna si è vista concedere cento miliardi di euro dalla Bce, o al massimo per un giorno intero o per una settimana.
Da quando Draghi ha ottenuto dal suo consiglio di amministrazione la possibilità di comprare titoli di stato dei paesi in difficoltà attraverso il Meccanismo di solidarietà europeo per ridurre in modo determinante gli interessi su queste obbligazioni, la pressione feroce dei mercati finanziari sembra ridursi. Ma questo significa anche che i paesi che avranno bisogno di questo aiuto saranno costretti a strisciare, a constatare che la democrazia avrà ceduto il posto alla tecnocrazia. La decisione della Bce significa anche creare di fatto del denaro. Potremmo quasi immaginare Draghi mentre sta letteralmente fabbricando banconote. E io che avevo sempre pensato che cose del genere le facesse solo gente come Mobutu!
Draghi contro Beethoven
Non sono solo i populisti, i comunisti o i fascisti ad aver capito che c’è qualcosa di sbagliato nella tattica e nella strategia europea. Anche i comuni cittadini si sentono angosciati, cittadini che non desiderano altro che un alloggio decente, che vogliono avere dei figli, uno stipendio che permetta di far vivere in modo decente la loro famiglia. Ma non ci danno neppure questo, cercano di sottrarci questa piccola felicità e ci spingono con la frusta verso la parrocchia di San Precario.
Un lavoro pagato un prezzo giusto, una piccola casa, una famiglia, sono quelle che definisco delle aspirazioni ragionevoli. Ma ormai si ha l’impressione che solo un’unica razionalità abbia diritto di esistere, la razionalità economica che prevede che la gente ricerchi sempre di massimizzare il proprio profitto.
Questa pace nella propria casa, nel proprio giardino e nella propria cucina, questa ambizione limitata ma sostenuta democraticamente è stata possibile solo grazie a uno dei più grandi risultati della civiltà europea. Mi riferisco allo stato assistenziale o semplicemente alla sicurezza sociale. La sicurezza sociale, così come è stata costruita dal diciannovesimo secolo e soprattutto nel dopoguerra in Belgio, Svezia, Francia, Paesi Bassi e più di recente in Germania, rappresenta il vero tesoro della civiltà europea. Un tesoro prezioso quanto i gioielli delle cattedrali francesi, le sinfonie di Beethoven, i quadri di Vermeer, il Faust di Goethe o i romanzi di Camus.
L’edificazione e il mantenimento della sicurezza sociale esigono una visione strategica, dell’immaginazione, delle conoscenze tecniche, dell’ingegnosità, della razionalità. Doti simili a quelle utilizzate da Beethoven per comporre le sue sinfonie. E quando Draghi dice sul Wall Street Journal che ormai il modello sociale dell’Europa è scomparso e che il contratto sociale del continente è superato, non fa altro che porsi come un nemico di questa civiltà europea. In altre parole, Draghi fa parte dell’alto clero della parrocchia di San Precario.
Traduzione di Andrea De Ritis
http://www.presseurop.eu/it/content/article/3271981-san-precario-patrono-d-europa
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