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corriere.it – 4 gennaio 2010
Gli stati generali indetti nello spazio di Rho
Al via una class action contro il collegato lavoro
MILANO – Il Centro Sociale Sos Fornace, sgomberato martedì mattina a Rho, è anche il quartier generale dei precari organizzati. Proprio nello spazio autogestito di Rho erano stati indetti, per sabato 15 e domenica 16 gennaio prossimi, gli Stati Generali della Precarietà 2.0, riunione di tutte le sigle extrasindacali impegnate nella difesa dei lavoratori più deboli in assoluto, ma anche del popolo dei co.co.co, indistinto e spesso frammentato. Un fronte comune contro il «collegato lavoro» e le nuove norme che dal prossimo 23 gennaio renderanno più difficili (se non impossibili) le azioni legali per regolarizzare i rapporti di lavoro flessibili.
L’OSSERVATORIO – Vista anche la sua collocazione geografica, la Fornace è diventato un punto di riferimento per i lavoratori della Fiera messi in mobilità, oltre che un osservatorio sulle speculazioni immobiliari dell’area Expo. Da tempo è attivo all’interno del centro sociale uno sportello «Biosindacale / Punto San Precario» che promuove le vertenze dei lavoratori della Fiera, e che in occasione degli Stati Generali della Precarietà si proponeva di raccogliere e finanziare le cause di lavoro di quanti intendono uscire dalla zona grigia dei «contrattini» e del tempo determinato a vita. «L’appuntamento degli Stati Generali della Precarietà 2.0 – si legge sul sito della Fornace – rientra in pieno nel percorso di difesa degli spazi sociali che fanno conflitto nella metropoli e che per questo sono sotto attacco».
LA LEGGE TAGLIAPRECARI – Il cosiddetto «collegato lavoro» prevede l’obbligo d’impugnare il proprio contratto a termine entro massimo 60 giorni dalla scadenza. È entrato in vigore lo scorso 24 novembre, dunque la dead line è fissata al prossimo 23 gennaio. Oltre quella data, tutti i diritti maturati precedentemente perderanno qualsiasi efficacia e non si potrà più ricorrere contro il proprio datore di lavoro. Gli stati generali si propongono quindi di offrire a tutti i precari assistenza legale gratuita, e gli avvocati di San Precario pare si siano già messi al lavoro. La minaccia per i datori di lavoro è di ricevere a breve una pioggia di azioni legali.
LA RISPOSTA DELLA FORNACE – Al motto di «La Fornace non si spegne!» militanti e simpatizzanti del centro sociale si sono dati appuntamento davanti al Comune di Rho alle 20.30 di martedì per protestare contro lo sgombero.
A. Cas.
La pausa pranzo spostata alla fine di un turno di lavoro che dura come minimo 7 ore. Le pause sigaretta/caffè di 10 minuti eliminate. 120 ore di straordinari diventano obbligatorie: sono 10 ore al mese, 2ore e mezza di lavoro in più ogni settimana. Il totale orario per 6 giorni di lavoro su 7, è pari a cinque giorni di lavoro di 7 ore filate e uno di 7 ore e mezza. Esclusi dal conteggio gli ulteriori straordinari.
Uno degli altri ‘punti’ degli accordi Pomigliano/Mirafiori prevede il non pagamento dei primi due giorni di malattia. Per uno stipendio di 1200 euro al mese, si tratta di 120 euro nette in meno. Non dopo 4 o 5 volte che resti a casa, ma subito, alla prima influenza.
Questi sono solo alcuni dei contenuti che il 99% dei media si sono guardati bene dallo spiegare in modo pratico, lasciando spazio alle varie dichiarazioni.
Hanno ucciso il contratto!
Visto che stiamo parlando dell’impresa più importante d’Italia, gli accordi sono molto più di ulteriori deroghe al già malandato contratto nazionale di lavoro (…e beato ci ce l’ha). Sono la sua definitiva demolizione, e i suoi punti stanno già facendo scuola in tutti i più importanti uffici del personale italiani, dopo essere da mesi argomento di analisi nei dipartimenti universitari di relazioni industriali, sociologia e diritto del lavoro.
Competitività! La produttività!
Un po’ di chiarezza non guasta, era ora! Finalmente tutti potranno capire il significato di parole misteriose che affollano da 20 anni tv e giornali: merito, produttività, competitività, lotta all’assenteismo. Non c’era bisogno di scomodare tanti cervelloni per dire cose scontate: devi lavorare di più, senza pause, mangiare solo a fine turno se hai voglia di fermarti ancora lì dentro, e se ti ammali non ti pagano la malattia. Semplice no?
Chi è l’assassino?
Ma un contratto nazionale, che ci son voluti 30 anni di scioperi, manifestazioni, morti, per ottenerlo, non si può cancellare dall’oggi al domani, no? Non si possono eliminare gli aumenti e i livelli uguali per tutti, (le tabelle stipendiali) di punto in bianco. Non sarà forse che è difficile capire chi è l’assassino? In quanti, quando e perchè hanno ucciso il Contratto?
Sarà difficile che sindacati, partiti sedicenti ‘progressisiti’, esperti di diritto ed economia riformisti, riescano ad ammettere il loro fondamentale ruolo nell’avvelenamento lento ma costante del contratto nazionale. Più facile dar colpa alla ‘globalizzazione’, per pulirsi le mani sporche di 25 anni di deroghe taciute, passate sotto silenzio, difficili da capire se non si è dentro la materia.
Amici al veleno
Eppure le ‘loro’ iniezioni velenose sono lì, non si possono cancellare i buchi. Dalle prime eccezioni ai contratti nazionali, nei primi anni Ottanta, con l’apprendistato fino alla Formazione Lavoro, dal part Time ai contratti a tempo determinato. Deroga su deroga già nel 1993 il Contratto Nazionale stava traballando. La maxideroga più pesante però, la frattura tra prima e dopo è la legge Treu del 1997, che legalizza il lavoro interinale. Due colleghi, due contratti, due tipi di tutele, interessi, aspettative diverse. E’ l’esplosione del precariato diffuso, che spacca in due pezzi diversissimi tra loro quei lavoratori che il Contratto nazionale voleva unire. La frattura è netta per diritti, organizzazione e tipi di lavoro, forma mentis, e si allarga a partire dai 40-45enni fino a diventare una voragine sotto i 35.
Sindacato novecentesco
Quale antidoto? Lo sciopero generale, dicono in molti. Senza pensare come intere generazioni nate e cresciute fuori dai loro ‘Contratti Nazionali’ possano difendere qualcosa che non conoscono se non per sentito dire. Cosa ne sa un precario dei diritti di un contratto se fatica ad arrivare a fine mese tra nero e pezzi di lavoro instabile?
Tutti questi anni passati a concertare, pattuire, assecondare interessi che non sono dei lavoratori, hanno prodotto un boomerang mortale sul sindacato novecentesco.
Derogare tutto. Deroghe a tutti.
Ma non è detto che sia un male giocare a carte scoperte, almeno per una mano. Così si può davvero capire chi bleffa e chi si nasconde. Chi sta di qua e chi sta di là. E’ l’unico modo per poter ripartire, insieme. Altro che ‘affronto alla democrazia’. I precari sono delle deroghe viventi, la malattia non gliel’ha mai pagata nessuno e nemmeno le ferie. Le ore in più non si chiamano nemmeno straordinari, per loro. Per non parlare dei contributi pensionistici. Era ora che non fossero soli ad affogare. Aspettate 6 mesi e nel fango fino al collo ci finiranno tutti. Solo vivendo sulla propria pelle quello che decine di migliaia di precari provano da sempre anche gli ex garantiti, i tutelati dai contratti, quelli del ‘posto fisso’, potranno capire l’inferno in cui si dibattono da sempre i colleghi meno fortunati. Allora forza con le deroghe. Avanti con le riforme. Non siamo più negli anni Settanta. Non lasciatevi sfuggire nessuno, derogate a man bassa. 1-10-100-1000 Mirafiori e Pomigliano. In tutte le aziende, in ogni settore. E poi ne riparleremo.
carmillaonline.com – 21 dicembre 2010
Testo integrale dell’intervento letto alla serata “Un panino con Dante”, Ferrara, 15 dicembre 2010
Ieri tutti quelli che credono che l’opposizione sia questione di palle sul pallottoliere hanno dato tutti i numeri di cui erano capaci. Mi permetto di dare anch’io qualche numero.
Dalla Sintesi Dati Scuola Statale 2009-2010, pubblicata dal ministero dell’istruzione, possiamo farci un’idea della reale entità dei taglio dello scorso anno: quando, per capirci, il riordino dei cicli scolastici della scuola superiore non era ancora entrato in vigore. La dotazione organica del personale docente è diminuita, dal settembre 2008 al settembre 2009, di 36.806 unità. Più in concreto, il numero dei docenti di ruolo è diminuito di 26.522 unità; i contratti a tempo determinato, cioè i posti per supplenti, sono diminuiti di 13.862 unità; in totale sono scomparsi dalla scuola pubblica 40.384 insegnanti (dei quali circa un migliaio di personale di sostegno, e 500 dirigenti); a questi lavoratori scomparsi vanno aggiunti 14.157 collaboratori, quasi tutti precari.
I numeri sono ben peggiori di quanto annunciato, soprattutto a fronte degli oltre 36.600 alunni in più. Aggiungo: il numero di scuole è diminuito di 92 unità, ma quello delle classi è aumentato di oltre 4200: ovvero, 4200 tramezzi tirati su per dividere un’aula e ricavarne due, in barba alle norme di sicurezza e alla buona didattica. E l’unica cifra certa di cui disponiamo per il settembre 2010 – i 41.477 disoccupati che hanno chiesto di accedere alle misure del cosiddetto “decreto salva-precari” – ci lascia intendere che il saldo, al prossimo settembre, non potrà che essere altrettanto negativo. A fronte dei promessi 87.000 posti di lavoro in meno in un triennio nel solo segmento dei docenti, è lecito attendersene 100-120.000.
Un altro genere di numeri ha per qualche giorno attratto l’interesse della stampa: i risultati dei test OCSE-PISA 2009. Tralasciando il ridicolo di cui si sono coperte Gelmini e Aprea, col rivendicare al loro governo della scuola questi risultati (i test, ricordiamolo, erano stati svolti nella primavera del 2009: è come se Benitez si attribuisse il merito di aver partecipato al mondiale per club), e Giorgio Israel (su Il Giornale dell’11 dicembre scorso), per il quale «l’unica spiegazione possibile del piccolo miglioramento che i sondaggi attestano» è nella «iniezione di rigore» degli ultimi anni, ossia del famoso 5 in condotta, questi test non dicono nulla che già non fosse noto (e qui mi permetto di rimandare a quanto avevo osservato nel mio libro): i licei hanno conseguito risultati migliori della media OCSE in tutti i campi; le scuole private italiane risultano essere le peggiori del mondo (con un significativo peggioramento); le percentuali di bullismo o fenomeni delinquenziali rilevati nelle scuole italiane sono inferiori alla media dei paesi OCSE. Ma qui è necessario un chiarimento: questi dati sono attendibili solo nella misura in cui, per altre vie, confermano dati già acquisiti. Restano infatti validi tutte le ragioni per prendere con le molle questi test, frutto di una somministrazione uniforme che non considera gli specifici programmi scolastici dei diversi paesi, e che testa in base a un determinato modello culturale, che viene quindi surrettiziamente imposto in base ai risultati ottenuti. A fronte dei test sulle capacità di lettura somministrati ai quindicenni, usati per esprimere improprie valutazioni sullo stato della lingua italiana, dicono molto di più le rilevazioni sulle ricorrenze della lingua italiana di seri studiosi come Serianni e Antonelli [qui], che attestano come, ad esempio, la presunta scomparsa del congiuntivo sia solo un effetto percepito, che non corrisponde ai reali usi linguistici. Nondimeno, ci sono alcuni campanelli di allarme che suonano anche all’interno di questi dati OCSE, che sono un po’ come il libro che vince il Premio Strega e il Piani di Offerta Formativo delle scuole: tutti li hanno in mano e tutti ne parlano, ma nessuno li legge. Dati che confermano – o sembrano confermare – ciò che per altre vie sapevamo: che la scuola italiana è ancora una scuola di classe. Che il divario tra scuola italiana e area OCSE diminuirebbe se lo status economico-sociale dell’Italia non fosse inferiore a quello medio dell’area OCSE; che migliori risultati sono ottenuti da studenti che abitano nelle zone “nobili” delle città, a fronte dei loro colleghi delle periferie, e delle città nei confronti degli abitanti dei piccoli paesi e delle aree rurali; che il divario con l’area OCSE si allarga se prendiamo in considerazione gli alunni migranti. Le possibili spiegazioni di questi dati (in attesa delle analisi complete, che ancora non sono disponibili) chiamano in causa l’assenza di librerie e biblioteche nei piccoli paesi (per un totale di circa 13 milioni di italiani che sono di fatto privi di questi servizi); e il confinamento dei migranti nella scuola o nella formazione professionale, dove gli esiti sono più bassi, a dimostrazione di una reale crisi educativa sulla quale centrodestra e centrosinistra hanno concordemente gettato la spugna, favorendo la trasformazione del settore professionale nell’anticamera del mondo del lavoro, in coerenza con le leggi sul precariato che, da Treu a Biagi fino al recente “Collegato lavoro” di Sacconi, hanno nei fatti esteso l’area della precarizzazione del lavoro ed espropriato dei diritti costituzionali i lavoratori precari, con il consenso delle organizzazioni sindacali storicamente contigue al ministro Sacconi e il placet a volte fattivo, a volte ipocritamente distratto dell’attuale Partito Democratico.
Il richiamo alle politiche sul lavoro dell’attuale governo non è strumentale: si capisce davvero poco della politica scolastica e universitaria di questo governo se non la si colloca in stretta relazione con le politiche lavorative. Dentro come fuori dalla scuola è in atto un tentativo di dividere i lavoratori dipendenti e contrattualizzati dai precari, per poterli giocare gli uni contro gli altri e, alla fine, sconfiggerli entrambi. In entrambi i casi è evidente l’introduzione di norme che rafforzano il controllo sociale sul lavoro, riducono le aree di espressione critica, e minano i fondamenti costituzionali sanciti dallo Statuto dei lavoratori. Basta confrontare il Decreto Brunetta 150/2009, dopo la pubblicazione della circolare applicativa 88/2010, con gli articoli 31 e 32 sull’arbitrato e sull’impugnazione del licenziamento del Collegato Sacconi [un’analisi dettagliata qui]. Per il dipendente della scuola, a fronte del potere di irrorare sanzioni attribuito al Dirigente scolastico, con la scomparsa dei gradi intermedi di contestazione al provvedimento non resta altra possibilità che il ricorso al giudice del lavoro. Per il precario, l’obbligo di versare in anticipo il compenso arbitrale e l’estensione della decadenza, ossia del limite temporale previsto per il licenziamento ai rapporti di lavoro instabili diminuisce le fattive possibilità di ricorrere contro un ingiusto provvedimento. In ambedue i casi il controllo sulle attività lavorative si coniuga con una preventiva dissuasione dal ricorso alle procedure di contestazione, e con la conseguente attività di autocensura e autolimitazione dei diritti da parte del lavoratore.
O ancora: leggiamo in parallelo l’art. 50 del Collegato Sacconi, che nel suo piccolo costituisce un vero e proprio provvedimento ad aziendam (nello specifico in favore dell’Atesia, azienda che gestiva a salari da fame, con ignobili cottimi e senza contributi pensionistici migliaia di lavoratori dei call center), e le circolari Limina (in Emilia-Romagna) e Palumbo (in Veneto) [analizzate qui e qui]. Nel primo caso la quantificazione del danno subito dal lavoratore che dovesse vincere un ricorso non può superare l’ammontare degli ultimi sei mesi di stipendio, ovviamente a tariffe da call center: una cifra talmente poco vantaggiosa da scoraggiare il lavoratore che volesse alzare la testa e reclamare i propri diritti. Lo stesso effetto si rileva per il lavoratore della scuola che volesse alzare la testa, e che invece è spinto ad accettare il bavaglio che quelle circolari interpretative impongono, addirittura prevalendo su leggi dello Stato. Ed è di nuovo significativo che nel caso Atesia-Collegato come nel caso delle circolari-bavaglio sulla scuola sia verificabile e dimostrabile un consenso bypartisan tra le diverse fazioni politiche che ieri si dividevano sul conteggio delle palle colorate nei rispettivi pallottolieri.
La precarizzazione del lavoro, con le sue conseguenze sociali – frantumazione giuridica ed esistenziale del lavoro; confusione del tempo di lavoro col tempo della vita; controllo sul sapere sociale; incapacità di una narrazione comune tra le diverse figure del lavoro, e tra le diverse forme di resistenza e di lotta – attraversa oggi il mondo del lavoro in tutti i suoi aspetti; nello specifico settore dell’educazione e della formazione, questo attraversamento agisce secondo specifiche modalità, che preludono ad una crescente privatizzazione della formazione, e preparano al tempo stesso la cultura della precarietà e dell’assoggettamento del sapere al comando aziendale. Esemplare è il Protocollo d’Intesa “Tecnici Superiori per Finmeccanica” [qui] stipulato da Gelmini con Finmmeccanica. Questo protocollo prevede la partecipazione di Finmeccanica, attraverso le proprie aziende , alla costituzione di Fondazioni che sorgeranno in Piemonte, Toscana, Campania e Puglia. Le aziende della holding italiana si muoveranno su tre livelli: «Governance, individuando propri rappresentanti nel consiglio direttivo e nel comitato scientifico delle Fondazioni; Asset, con personale interno che fornirà attività di docenza (per la metà delle ore curriculari previste) e la disponibilità ad utilizzare le proprie strutture interne (ad esempio laboratori e macchinari); Placement, selezionando i giovani partecipanti più meritevoli per l’inserimento in azienda». Due sono i punti di rilievo di questo accordo: Finmeccanica è una holding costituita dal meglio dell’industria bellica italiana, da Agusta Westland ad Alenia Aermacchi. Ma soprattutto, questo accordo si rivolge non agli istituti professionali, ma a quelli tecnici. Con questo protocollo, secondo le dichiarazioni di Gelmini, «si da concretezza ad un obiettivo che il Ministero sta perseguendo con determinazione: rafforzare le competenze di base del sistema scolastico, per preparare in maniera adeguata i giovani alle sfide del mondo del lavoro»; in altri termini, si forniscono, a spese della pubblica istruzione, tecnici specializzati per le industrie Finmeccanica; dunque lo scopo dell’istruzione tecnica diventa non la formazione di quadri intermedi dell’industria, ma la formazione di figure professionali specifiche; non l’attuazione di un percorso formativo che prelude a quello universitario, ma di un percorso che vincola il futuro lavoratore ai destini del gruppo industriale, agganciando il suo destino alle sorti di una specifica azienda. Mentre si distrugge la formazione professionale, si professionalizza l’istruzione tecnica.
Concludo con una battuta. C’è un modo di dire, nella mia città natale, piuttosto volgare, che tradotto e addolcito potrebbe suonare: è facile fare l’omosessuale con culo altrui. In questo momento molta parte del cosiddetto centrosinistra fa ciò: si atteggia ad opposizione, sulla pelle e col culo dei lavoratori e dei precari, senza opporre alcunché di fattivo alle politiche del governo. Ed anzi, avallando in silenzio, o anche in modo palese le politiche dell’asse Tremonti-Sacconi-Brunetta: vedi i due disegni di legge 1872 e 1873 del 2009, che mirano alla riforma dell’art. 41 della Costituzione e al superamento dello Statuto dei Lavoratori, firmati tra gli altri da Bonino, Ichino, Carofiglio, Marino e sostenuti dal movimento politico di Rutelli e Lanzillotta. Le lotte operaie e studentesche di questi giorni, le grandi manifestazioni autoconvocate che riempiono da giorni le piazze, gli operai e i precari sui tetti come i libri colorati in strada dicono che c’è bisogno di un’altra opposizione, di un’altra narrazione non rassegnata e non conciliante delle lotte. Di una classe politica che non si limiti ai pallottolieri e alle passeggiate nel centro di Roma il sabato pomeriggio. Che riscopra il gusto del conflitto, dell’intransigenza, della solidarietà nelle lotte.
Per gli altri, una sola frase: Que se vayan todos!
di Girolamo De Michele
Uninomade.org – 21 dicembre 2010
Le mobilitazioni e le lotte degli ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a Roma. Usano tutte una lingua comune che fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di traduzioni forti e chiare. Parlano dell’era della precarietà ontologica che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove suggestioni.
Facilmente sfugge questo tratto effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione, riflesso, si tende a esporre la propria condizione professionale, il mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e, contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center, magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la medesima precarietà ontologica. Non è più il tempo di farci prendere dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente, si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative, dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe giàrevolution.
Siamo almeno vicini a una svolta? L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non aver più freni: è il sentito della condizione precaria che esonda e con ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni vecchia categoria del mondo. Quanto meno, rotazione.
La condizione di precarietà ha assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e il bios (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale.
Nel bio-capitalismo cognitivo, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindiesistenziale, quindi generalizzata. È, perciò, condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.
La condizione precaria non è oggi ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna” alla persona, a determinare il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente interiorizzata, la presa di coscienza o è autocoscienza o non è.
Qui sta il nodo che definisce oggi la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre – anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.
Nel nome della lotta alla precarietà (spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai, nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche. Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine) del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e “neutralmente” uniforme e omogenea.
Non è un caso che il termine “precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria, quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico, centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli altri.
Se si vuole analizzare la composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della precarietà deve essere assunto come paradigmatico del rapporto capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere precarizzata, ma è la condizione precaria a essere il paradigma che fa da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e relazione.
Si tratta di una differenza sostanziale e politica. Si tratta di riconoscere che la condizione precaria, soggettivamente percepita in modo differente, viene prima dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del lavoro.
A metà ottobre, a Milano si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al centro la condizione precaria, (/stati-generali-2010). Si tratta, infatti, di sviluppare un punto di vista precario, ovvero una proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale. Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà gennaio, sempre a Milano.
Benedetto Vecchi, sulle pagine de Il Manifesto ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza: più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza” (/materiale). Testi innovativi e radicali, che hanno ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del precariato.
L’insorgenza del 14 dicembre a Roma esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa dice.
di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI
il Manifesto – 17 dicembre 2010
Quanto sembra remoto l’unanimismo democratico di “Vieni via con me”, con l’officiante Fazio che assemblava tutto il perbenismo nazionale – di centro, di destra e di sinistra – e proclamava, parole sue, che la trasmissione era la prima della tv post-berlusconiana! Sono passate poche settimane, ma sembrano anni. Il Cavaliere, che i conti li sa fare, ha emarginato il suo oppositore interno. I centristi, raccolte le loro sparse ed eterogenee truppe, si leccano le ferite. Di Pietro ha abbassato la cresta e magari riflette sulla selezione del personale politico dell’Idv. Il Pd tira un sospiro di sollievo, perché per un po’ le elezioni si allontanano…
E soprattutto la rivolta del 14 dicembre ha mandato in pezzi quel buonismo peloso e dolciastro che il centrismo di destra e di sinistra ha cercato di contrapporre invano a Berlusconi. Bersani sui tetti, Granata sui tetti – dopo che il primo non aveva fatto una grande opposizione per fermare il Decreto Gelmini e il secondo si disponeva a votarlo. Per il momento, il progetto di un berlusconismo senza Berlusconi, di un moderatismo costituzionale e unanimista, perde colpi. Come si è visto dalle straordinarie immagini dei palazzi del potere assediati dai manifestanti, la rocciosa realtà del conflitto ha preso il sopravvento sulla realtà illusoria e distraente delle rappresentazioni mediali e delle “battaglie” parlamentari in cui la sola posta in gioco è quale destra governerà il paese.
Il conflitto, appunto. Deve essere il capo della polizia Manganelli, pensate un po’, a ricordare che la violenza è la manifestazione visibile di un disagio sociale terribile che accomuna studenti, precari e giovani esclusi da qualsiasi speranza. Tutto il polverone sugli infiltrati, i mitici black bloc, gli autonomi redivivi, gli anarchici in trasferta rivela l’incapacità di comprendere che la manifestazione di Roma non è che l’espressione di una turbolenza profonda che non bisognerebbe emulsionare con gli stereotipi più triti. In questo senso la lettera che Saviano ha indirizzato su “La Repubblica” ai «ragazzi» del movimento è l’esempio perfetto dell’immagine irreale – a metà tra il sogno e l’esorcismo – che nella sfera separata dei media ci si vuol fare dei movimenti contemporanei.
Cento «imbecilli», come dice Saviano? Al di là del tono paternalistico della missiva («ve lo dico io che sono giovane come voi, credetemi»), colpisce l’incapacità di entrare, se non altro con l’immaginazione, nelle motivazioni di persone tagliate fuori, come centinaia di migliaia di loro coetanei, da qualsiasi progetto, non dico di società, ma di sopravvivenza anche immediata. Dove sarebbero, di grazia, caro Saviano e cari organi di stampa, i black bloc tra i manifestanti oggi scarcerati? E dove i violenti che agirebbero solo per brama di sfascio e poi, curiosa contraddizione, appena arrestati, si metterebbero a «piagnucolare e a chiamare la mamma» (ma chi glielo ha detto, a Saviano?).
I commenti pubblicati dalla stessa “Repubblica” in coda alla letterina rendono bene lo sconcerto, e in certi casi la rabbia, di tanti che magari si erano identificati nel simbolo Saviano e ora si trovano etichettati come imbecilli. Perché loro c’erano e hanno visto. E quanto all’invito ai manifestanti a fare cortei in letizia e alle forze dell’ordine a comportarsi bene, manganellando solo i cattivoni, beh, accidenti, come sarebbe bello e democratico! Peccato però che le cose non vadano mai così. Io mi ricordo bene Genova, perché c’ero e ho visto, e posso assicurare Saviano che il comportamento pacifico di decine di migliaia di dimostranti non li ha esattamente preservati dalle botte.
Questione ben più seria è che sbocco avrà questo movimento, analogamente ad altri che si diffondono in Europa, perfino nella già compassata Inghilterra. Ma il primo passo per discuterne è prenderlo sul serio, rinunciare ai luoghi comuni rassicuranti, non dar retta al pentitismo nazionale (in cui sono specializzati, magari, ex sessantottini approdati ai media), ascoltare prima di giudicare e, soprattutto, scendere dai pulpiti che stanno un po’ di spanne al di sopra del mondo reale.
Alessandro Dal Lago
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