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Il manifesto – 17 dicembre 2010
Parlano i protagonisti dell’assedio alla zona rossa del 14 dicembre: “così miriamo a rompere solitudine e subordinazione”
Nessuna «estetica della violenza», niente luddismo. A entrare in azione è stata la lucida consapevolezza che la crisi sistemica globale si sta portando via – con la demolizione del welfare state – anche la «mediazione sociale». Una generazione si scopre senza futuro, se non riuscirà a costruirlo «cooperando». E anche una barricata diventa un modo per scoprire come fare
Si fa presto a dire «black bloc». Salvo poi scoprire i volti dei propri figli dietro le sciarpe o un sasso. Abbiamo ascoltato attentamente le ragioni di chi martedì ha scelto di forzare la «zona rossa» intorno al Palazzo. Per scoprirne la cultura politica e sondarne la ricchezza umana. Seguiteci.
Tutti vi cercano, ma nessuno si interroga troppo. Com’è andata martedì?
La giornata ha messo in evidenza soggetti e movimenti con cui si devono ora fare i conti. Sta avvenendo in tutta Europa. Il paragone con gli anni ’70 è una narrazione del potere, per farne una semplice ripetizione ciclica, una banalità. C’è stata una saldatura importante tra tessuti sociali sulla proposta concreta. Si è unificata la prospettiva, ci si è dati una parola comune. E ha generalizzato il tema della condizione precaria, che viene sempre ridotta all’attesa di un posto fisso che non arriverà mai; mentre accomuna ai senza casa, ai cassintegrati, ecc.
Qual è stata la parola unificante?
Martedì era la rivolta, la ricerca della rottura. Come singole realtà sociali, facciamo molto altro. Per esempio, siamo impegnati in battaglie locali – a volte insieme ai sindacati di base o altre realtà – in conflitti di intensità inferiore. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a «soggettivizzarsi» non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo «pezzettini» di rivolta quotidiana. Alla fine emerge la crisi globale di un sistema bloccato. Siamo di fronte alla crisi del processo di valorizzazione: di per sé è una «crisi sistemica». Non c’è molta ideologia da aggiungere. E c’è pure una «crisi nella crisi», quella della rappresentanza politica.
Coincidenza forse non casuale.
No. Ma è anche una scelta necessitata. Se – come potere – dico che «a causa della crisi» non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che «la mediazione» non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico. Ma ogni scelta economica è politica. Ora ci troviamo in una nuova stagione, che rimette in discussione anche tattiche, progetti, apparati organizzativi.
È cambiato «l’ambiente» per tutti. Trovare l’accordo intorno a un tavolo richiede anni, una giornata così, invece…
Non c’è dubbio, perché alla fine si tratta anche di riconquistare un po’ di forza sociale e politica. Se vogliamo la trasformazione radicale dell’esistente dobbiamo rimettere al centro i processi di conflitto. È politicismo parlare oggi di «quale rappresentanza per i movimenti», oppure «quale dialogo con il sindacato democratico». È discutere di politica prima di accumulare forza e presenza. I processi di ristrutturazione e riorganizzazione del capitale hanno frammentato il tessuto sociale. Ricostruire è arduo. Servono molte strutture reali, per supportare la socializzazione. L’opzione sindacale in molte situazioni non è sufficiente, visto anche l’alto livello di ricattabilità sui posti di lavoro, specie nel settore privato. In Italia la metà del lavoro è al nero. Ci sono 14 milioni certificati di inattivi…
Un po’ troppi, per esser tutti veri…
Tra questi sicuramente si pesca molto lavoro nero o sommerso, ed anche la criminalità. Nelle nostre periferie ci sono centri urbani di spaccio a cielo aperto, lì c’è il vero «quarto settore». Ma il problema della rappresentanza andrebbe posto come rappresentanza sociale, capacità di essere recettivi e intellegibili ai tanti che sono soli e non sanno come esprimere la propria rabbia. Ora sanno che c’è qualcuno disponibile. Fino a ieri pensavano che eravamo tutti «normalizzati», che con un paio di fondi pubblici ai centri sociali e una candidatura si sistemava tutto.
Tutto qui?
Che da qui a «costruire un mondo nuovo» sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no… Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento… Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri «con chi» puoi fare un altro mondo. Tutto questo riporta al vecchio tema: «senz’acqua, la papera non galleggia».
Martedì si vedeva chiaro: «solo tutti insieme facciamo paura».
E la piazza ha «tenuto» oltre ogni attesa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti «pischelletti» hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile. Il movimento non è «nostro», è libero di scegliere.
Una ricomposizione concettuale, dopo 20 anni di «impotenza percepita»…
È stata davvero una giornata importante, per questo. Ora bisogna lasciare spazio affinché si esprima su altri obiettivi. Nei mesi scorsi è stata importante la mobilitazione degli studenti medi. E si è visto. Lo spezzone universitario ci stava dentro con una consapevolezza maggiore, ma con articolazioni meno sociali, più «equilibrismi». Ma è nella frammentazione sociale che c’è più necessità di un passaggio politico. Bisogna dare parola e rappresentanza sociale, quindi anche politica, a un precariato diffuso che oggi non ha altri spazi se non il proprio stesso «agire». C’è necessità di «candidarsi nella società» – non alle elezioni – essere credibili per le cose che fai e che dici tutti i giorni, al di là della sparata di martedì. Si tratta di costruire «complicità» nelle relazioni. Un piccolo obiettivo contro l’isolamento e la frammentarietà, ma anche contro la crisi della politica. Ci sono partiti di massa che, per fare un volantinaggio, faticano a mettere insieme 15 persone. E ci sono invece collettivi di base, movimenti autorganizzati, che hanno una capacità di militanza e adesione che va manifestata.
Come la spiegate questa differenza?
Anzitutto con l’accumulazione di forza e la consapevolezza delle parole d’ordine radicali che stiamo mettendo in campo. Se c’è una crisi sistemica, è sistemica. È inutile cercare il modo di cogestirla. L’idea di «governare la crisi» si scontrerà con gli equilibri della globalizzazione. Cosa farà Vendola domani, quando vorrà introdurre una riforma sociale radicale? Potrà sforare il patto di stabilità? Sarà disposto a farlo?
Da gennaio la politica di bilancio sarà fatta a Bruxelles.
Crediamo che la scelta sarà quella di «dichiarar guerra» ai poveracci. E’ ovvio che chi detiene il potere ha dei privilegi e li vuol preservare. Non ha più strumenti di mediazione, il welfare state, e dichiara guerra. Ma a questo punto è finita anche un’altra ipotesi: quella della «simulazione del conflitto». Oggi chi «simula» scherza col fuoco. Se è finita la mediazione politica, è finita anche la simulazione. L’«elemento simbolico» ha un peso forse ancora più forte. Il blindato che va a fuoco è un simbolo, non è che sparisce la guardia di finanza. Ma va a fuoco sul serio.
La repressione. Cosa vi aspettate?
Staremo a vedere. Per oggi si tratta di avere la capacità di dare una risposta unitaria. È comprensibile, conseguente, che ci sia una reazione dura. Chi ha i privilegi – ricchi, padroni, governanti – o chi voleva solo scalzare Berlusconi, presentandoci poi il conto dei sacrifici, del «governo di transizione neutrale», della gestione europea e di Marchionne… «non ci ama». Contro questa prospettiva abbiamo detto «que se vayan todos», andate tutti a casa. Perché non ci sono alternative, in questo «palazzo» immobilizzato tra lobby di interessi trasversali e governance della globalizzazione. Può darsi che finora siamo stati una generazione poco coraggiosa…
Ma è stata la vostra Valle Giulia…
È l’apertura di una nuova stagione. Tutta la cordata che arriva fino a Vendola dovrà prendere prima o poi delle decisioni. Abbiamo visto un silenzio imbarazzato davanti a questa giornata. E pensiamo sia sbagliato, perché bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono. Si parla di sofferenza, precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e la governance, oppure avrà le mani legate. E quindi l’unica cosa che rimane ai democratici è l’opinione. Ma, almeno quella, falla!
Qualcosa di molto distante dall’immagine di «quelli che vogliono solo sfasciare tutto»…
Si può anche non negare questa cosa: sì, volevamo sfasciare tutto. Ma eravamo tanti e volevamo prendere parola. Quando lo fai, non sei «simpatico».
Era un corteo di gente che finalmente parlava: «mafiosi», «venduti»…
Senza fischietti e palloncini… È il frutto di pratiche di organizzazione sociale, fuori dai campi già conosciuti, dalla «politica» dei partiti, in parte anche dai sindacati. Per esempio, lo spazio di attivazione dentro un laboratorio sociale, o la riaggregazione della precarietà in un determinato territorio, rimettendo al centro la «complicità» tra persone. Li aggreghi costruendo una tua «narrazione», che dice «siamo indipendenti, aspiriamo a dare parola a chi non ce l’ha».
Anche attraverso una birra scambiata, una squadra di calcio, o la «cospirazione» tra precari che si rivolgono a un avvocato per far causa all’azienda e sfilarle almeno un po’ di soldi.
Tanto, da precario, non hai il posto…
Alcuni dicono cash and crash. Un modo nuovo di «assumersi» in pianta stabile come precari e sopravvivere. Mostrano la corda tutte le forme di «crisi pilotata». La Cgil ha reso noto che le ore di cig concessa ha superato il miliardo. Ci sono oggi nuove frontiere oltre lo sfruttamento diretto della forza lavoro. Anche se, secondo noi, rimane sempre questo il centro della contraddizione.
Nonostante la delocalizzazione vada riducendo la base produttiva…
Ci sono anche le nuove forme del lavoro cognitivo, o del lavorare nel tempo di «non lavoro». Ma il tema è sempre quello della produzione, della vendita della forzalavoro; non è che si scappa. Rimaniamo sempre lì, tra valore d’uso e valore di scambio… Si tratta di costruire un’azione politica realmente alternativa, a cominciare da: cosa si produce, per chi, come lo si fa, in quale equilibrio e sostenibilità. Bisogna ripartire dai bisogni. In base a quelli sai anche calibrare una nuova filiera produttiva, cosa effettivamente è utile produrre. Magari scopriremo che non serve fare tante automobili, ma nemmeno ci dobbiamo tutti mettere a lavorare nel fotovoltaico. Ma torniamo al discorso di prima: o accetti la governance o la rompi. Per fare questo ti devi attrezzare, organizzare gente, accumulare forza; che è oggi il problema numero uno.
Hammett
danielebarbieri.wordpress.com – 15 dicembre 2010
“Teppista io? Macchè. I violenti sono loro. Ma se vuoi ti racconto tutto: i primi lacrimogeni della mia vita, i miei primi sassi tirati, la paura e la rabbia. Guarda ti dico proprio tutto ma a due condizioni. Che non dici il mio nome, quello è ovvio, e che alla fine rispondi tu a due mie domande. Ci stai? Bene”.
Conosco un pochino questo ragazzo che chiamerò Xyz. Di lui so per certo 4-5 cose che è interessante tenere presente leggendo questa specie di veloce intervista-racconto su cosa è successo ieri a Roma:
Xyz non è un teppista, anzi: è persona impegnata nella solidarietà; ne ho chiesto conferma a chi lo conosce più di me;
Xyz è studente e lavoratore (non dirò altro e comunque visto che io sono un giornalista di professione posso, anzi devo, “proteggere” le mie fonti);
Xyz da poco tempo si appassiona di politica con tutta l’angoscia di chi sente che gli stanno rubando il futuro;
Xyz e altri amici-amiche ieri sono andati a Roma senza bastoni o caschi, non avevano nessuna intenzione di fare quella che i giornalisti amano definire “guerriglia urbana”;
Xyz non è un “conta balle” (lo conferma anche chi lo conosce meglio di me) e dunque mi pare un testimone interessante per capire qualcosa di più su ieri…
La parola allora a Xyz.
Bellissima manifestazione. Ci hanno dipinto come teppisti: eravamo quasi tutte persone pacifiche che si sono difese dalle aggressioni. Mi chiedi se c’erano gruppi organizzati, questi fantomatici Black Bloc? Non ho alcuna pratica di scontri in piazza ma per quel che ho visto, a parte qualche piccolissimo gruppo organizzato… tutte le persone che hanno tenuto il centro di Roma contro le cariche della polizia erano persone come me, visibilmente inesperte, senza caschi o altro . Persone che per la prima volta in vita loro hanno messo un’auto di traverso o cose del genere. E si vedeva. Ci chiedevamo l’un l’altro: “se dobbiamo fermare una carica tu sai come si fa una Molotov?”. E nessuno lo sapeva.
Mi chiedi se c’erano infiltrati cioè gente che ha fatto cose strane e dunque potevano essere poliziotti o provocatori come a Genova nel 2001? Non lo so, a Genova non c’ero e non ho pratica di queste cose. Penso che, come accade spesso, la polizia e i carabinieri infiltrano qualcuno. E sì, qualcosa che mi è parsa strana l’ho vista. Non saprei dirti di più. Poi c’era tantissima gente secondo me normale, voglio dire né Black Bloc né poliziotti ma che, molto semplicemente, si è voluta sfogare. Noi ci siamo anche incazzati con chi danneggiava le cose a casaccio: sì alcuni lo hanno fatto veramente in modo stupido e abbiamo litigato con chi tirava bastonate contro qualunque cosa gli capitava a tiro.
Ti posso raccontare proprio questo dialogo che ho avuto io con un ragazzo giovane che, da solo e a viso scoperto, spaccava a casaccio:
“La macchina del Comune non devi romperla perchè è stata comprata con i soldi nostri”.
“Questo Stato e questa gente hanno distrutto la vita dei miei genitori e ora la mia, io voglio vendicarmi su questa città” mi ha risposto.
Io ed altri gli abbiamo detto: “sbagli, questa città è tua, devi riprendertela non distruggerla”.
Ma invece per le banche il discorso è diverso: eravamo tutte e tutti d’accordo che le banche sono le nostre nemiche. Da sempre. E poi l’ultima crisi internazionale è stata provocata dalle speculazioni e dagli imbrogli dei banchieri e invece di mandarli in galera i governi salvano anche i finanzieri più imbroglioni e anzi danno loro i soldi che tolgono a noi; ma questo schifo l’hanno capito in molti. E sempre più gente odia le banche, bisognerebbe organizzarsi dal basso, come hanno fatto in Messico e in altri Paesi contro questi vampiri.
Era la prima volta che noi, cioè intendo io e le persone che erano venute con me, facevano una barricata. Eravamo d’accordo che spostare le auto e metterle in mezzo alla strada per difendersi è comprensibile, è giusto. Non c’è altro modo.
Ripeto: non sono un violento e non approvo tutto quello che i manifestanti hanno fatto ieri. Anche se eravamo noi dalla parte della ragione e della giustizia. A volte qualcuno può esagerare sì, anche se lotta per la causa giusta.. Dipende da quanta rabbia ha accumulato, da quante ingiustizie e umiliazioni patisce ogni giorno. Anni fa ho letto un paio di libri sulla guerra civile spagnola e parlavano degli eccessi, dei crimini perfino, commessi da chi difendeva la repubblica dall’aggressione fascista, insomma di quelli che erano dalla parte giusta. Errori e qualche volta il puro piacere della violenza e della vendetta, cioè cose brutte e stupide. Ma anche se questo accade bisogna dire che sono episodi, che il senso di ieri è un altro: la maggior parte della gente in piazza a Roma si è difesa, lottava per il suo futuro contro chi ci vuole schiavi, contro chi un giorno dopo l’altro sta trasformando questa esile democrazia in una dittatura strisciante. E quando anche la magistratura sarà asservita, come insegna la storia, sarà dittatura assoluta.
Se vuoi ti racconto qualche episodio, così capisci meglio. Io non sono un teorico e da poco che mi interesso di politica: ho iniziato a farlo per paura, perchè ne sono costretto da quel accade… Si stanno mangiando lo Stato, stanno rubando ai poveri per dare ai ricchi. Io non posso stare a guardare; i nostri genitori e i nostri nonni non hanno lottato per questo, capisci?
Allora… mentre andavamo verso via del Corso con Piazza del popolo alle spalle, insomma per arrivare Montecitorio, mi è capitato di stare in prima fila. Ero molto arrabbiato per le violenze che avevo visto di poliziotti e carabinieri, oltre che per tutto il resto e per il Parlamento che aveva appena votato in favore di quel gangster e mafioso di Berlusconi. Insomma ero in prima fila e alcune persone tornano indietro urlando: “scappate, stanno per caricare”. Poco dopo arrivano i lacrimogeni: era la prima volta che li sentivo vedevo in vita mia. Dal rumore avrei potuto credere che fossero bombe…
Poi ho visto che chi aveva i guanti li ributtava indietro e altri li calciavano, allora ho cominciato a farlo anch’io. Dopo sono scappato, ma non troppo in direzione di Piazza del popolo.
Mentre cercavo i miei amici, ho incrociato macchine di carabinieri e polizia molto strane, cioè credo che quelli siano para-urti da sfondamento, non li avevo mai visti. Dietro tanti poliziotti, che iniziano a tirare lacrimogeni.
Non avevamo nulla in mano, tranne qualche piccolo gruppo che ho visto con caschi e qualche spranga. Erano i Black Bloc? Non so, ti ripeto non ne ho davvero idea. Non mi sembravano troppo organizzati ma solo un pochino più esperti di noi.
A quel punto per difenderci ci mettiamo a scavare in Piazza del popolo ma le pietre erano troppo grandi, dunque difficili da tirare. Così, all’imbocco della piazza, quando la polizia ci ha assalito di brutto siamo scappati ma loro erano troppo pochi così quando si sono ritirati stavolta li abbiamo caricati noi. C’era una camionetta della spazzatura rovesciata, cioè usata come barricata, che perdeva benzina e così le abbiano dato fuoco. Abbiamo spostato in mezzo alla piazza vasi, tavoli e tutto quel che trovavamo. Sai una cosa? Abbiamo cercato di usare per le barricate solo macchine di lusso, non quelle dei poveracci come siamo noi. A una abbiamo dato fuoco per respingere la carica. Ho visto qualcuno che con un tubo succhiava benzina dal serbatoio e la metteva in una bottiglia con uno straccio a penzolare: ho capito che era quella la famosa molotov.
Ero davvero arrabbiato per tutto. Così quando ho visto un poliziotto a 20-30 metri ho preso la rincorsa e gli ho tirato un sasso, il primo della mia vita, ti giuro… Mi ha visto e lo ha parato con lo scudo solo per una frazione di secondo. Non mi pento di averlo fatto. Stava lì a difendere un governo mafioso e a picchiare ragazze e ragazzi che erano quasi sempre pacifici, come io e i miei amici.
Macchè armi. Stupidaggini dei giornalisti. Lo sai come abbiamo fatto i bastoni per difenderci? Lì, in Piazza del popolo c’era una casetta in legno, non so forse era un ufficio per informazioni: l’abbiano buttata giù per avere qualche pezzo di legno in mano e poi il resto lo abbiamo bruciato.
Ti ripeto: io non ho visto i sacchi con le molotov pronte e anzi ho chiesto ad alcuni tipi più grandi che mi sembravano non aver paura: “ma voi avete pratica di scontri?”. E loro mi hanno detto: “un pochino”. Allora ho detto: “perchè non avete portato bastoni o qualcosa?”. E loro: “e chi lo sapeva che succedeva tutto questo casino”.
Cosa pensavo? A me l’immagine del poliziotto che carica fa paura, ma poi quando ho visto i poliziotti in carne e ossa mi è passata ogni paura. Sì, anche io quando alcuni di loro sono rimasti isolati sono andato sotto e ho dato una mano a picchiarli.
A un certo punto verso gli archi che chiudono la piazza, si è creato in imbuto e lì ci hanno manganellato a sangue, chiunque capitava: anche se aveva le mani alzate e se visibilmente non c’entrava. C’era una ragazza per terra e l’ho soccorsa. Ma è lì che poco dopo ho visto un poliziotto per terra, non so come mai era solo: quello è stato veramente riempito di calci e sputi. Gli sono passato accanto e gli ho detto: “ne hai prese abbastanza, io non ti faccio nulla”. Non mi piace infierire in tanti contro uno, io non sono come certi sbirri o certi stronzi che ci provano gusto.
Stavano picchiando un ragazzo che conosco pesantemente ma uno di loro ha detto “ora no, che ci sono le telecamere”.
Che altro dirti? Il corteo ovviamente era spaccato… ma ancora per un’ora abbiamo cercato di resistere.
Non ho sentito la tv ma ho letto i giornali oggi: che schifo.
Però ora devo andare a lavorare. Finiamo qui. Ti ricordi, giornalista, che ora ci scambiamo i ruoli? Tocca a me farti due domande.
“Vai pure” – gli dico.
Tu sei d’accordo con la protesta contro la Gelmini e contro Berlusconi?
“Certo” rispondo.
E allora dov’eri ieri?
“Mi avevano invitato n una scuola autogestita a fare una lezione sui razzismi, mi sembrava più utile star lì che andare a Roma”.
Ma alle prossime manifestazioni ci verrai?
“Avevi detto due domande, questa è la terza”.
Non fare lo scemo e rispondi… (Quasi si arrabbia Xyz)
“Verrò”.
E sei d’accordo con quello che ho detto?
“Questa è la quarta domanda ma ti rispondo lo stesso. Per quello che mi hai detto sono in gran parte d’accordo. Il diritto a difendersi non è in discussione. E comunque mi inorridisce che tanti si scandalizzino per queste piccole violenze di strada o per quei pochi che fanno qualche stronzata in una manifestazione giusta mentre ogni giorno sono complici o tacciono sulla grande violenza di questo sistema”.
Abbozza un sorriso Xyz e mentre se ne va si prende l’ultima battuta: “Era vero allora quello che dicevano i miei amici. Non sei un pennivendolo, uno stronzo come quasi tutti i giornalisti di oggi”.
Daniele Barbieri
Senzasoste.it – 14 dicembre 2010
Luogo comune ormai consolidato voleva che in Italia, a differenza di quanto accaduto in Francia come in Grecia o in Inghilterra, il ruggito della piazza fosse un lontano ricordo. Ma non si era fatto i conti con Mister Starve, come lo chiamavano gli inglesi durante la rivolta di Brixton del 1981, ovvero la fame intesa come quel generale in grado di disporre come e quando la rivolta sarebbe scoppiata.
Quello che è accaduto in Italia ha una dinamica semplice quanto molto moderna. Mister Starve nelle settimane scorse ha fatto vedere agli italiani quanto stesse accadendo a Parigi, ad Atene e a Londra. Dove è stata persino assediata l’auto di Carlo e Camilla. E, quando dagli schermi televisivi trapelano le lingue delle fiamme, statene certi: prima o poi Mister Starve colpirà anche nella nazione da dove si guarda placidamente lo spettacolo in tv. It’s only a matter of time, è solo questione di tempo direbbero gli inglesi.
E così mentre il parlamento dava luminoso spettacolo di corruzione e vanagloria si sono accesi gli incidenti nella piazza romana. Il più stizzito di tutti il noto quotidiano di disinformazione del centrosinistra, La Repubblica. Ha parlato di black bloc in azione. Con quasi dieci anni di ritardo dallo scioglimenti dei blocchi neri. Ma non c’è da stupirsi. La stessa Repubblica parlava di “autonomi” negli anni ’80 e ’90 ogni volta che spuntava un incidente e sempre molti anni dopo lo scioglimento dell’area dell’autonomia. Per il quotidiano romano sincronizzarsi con la realtà storica è sempre stato difficoltoso se non impossibile. Figuriamoci oggi dove, per il tetro mondo del centrosinistra, la rappresentazione dello spettacolo deve essere: si vota in parlamento ed un popolo sconfitto al massimo può indignarsi compostamente nella speranza che le carte bollate risolvano il problema Berlusconi (come no..). Ma questa rappresentazione al massimo può andare bene a Concita De Gregorio, direttrice di un giornale che a suo tempo le masse le ha combattute aspramente, quando occhiegga a Bocchino nei talk show nella speranza di contribuire a chissà quale orrore di governo. Il popolo, si sa, quando fa sentire la sua non lo fa usando il linguaggio pretesco e moralistico dell’indignazione sterile o quello dei pettegolezzi di teatro. Il popolo quando parla tuona, di qui l’atavico timore dei potenti.
Ecco quindi che, all’arrivo di Mister Starve, proprio Repubblica si è data alla disinformazione: nel newswire ha parlato di black bloc che tirano sassi ai passanti, di studenti dell’asilo che fuggono terrorizzati per colpa degli incidenti. La solita creazione di panico. Ma il punto è che è proprio il panico che nutre Mister Starve. Più lo alimenti più le truppe di Mister Starve ingrossano le fila. Già, ma chi sono le truppe del generale che cresce naturalmente in proporzione allo spettacolo della boria e della corruzione delle classi dirigenti?
Sempre Repubblica, è il progressismo che corre in soccorso del padrone nei momenti difficili, ha sentenziato: “nella mattina manifestazione pacifica di universitari, studenti medi, Fiom, terremotati dell’Aquila”. E nel pomeriggio chi c’era, secondo il quotidiano diretto da Ezio Mauro? Gli alieni?
Si tranquillizzino tutti. Mister Starve recluta tra gli umani. Recluta tra gli studenti, i precari, come tra lavoratori con il mutuo. E’ una leva composita la sua: non fa questioni di età, di sesso ma recluta tra i motivati a non farsi prendere in giro dallo spettacolo delle feste dei potenti nei momenti in cui il popolo rischia la fame. E le truppe di questo generale trovano i più invisibili dei fiancheggiatori: l’edicolante stanco di vedere tutti i giorni i potenti che sfrecciano davanti all’edicola con le macchine rombanti, la signora che al mercato comincia a imprecare contro la crisi, il pensionato che un tempo ha fatto l’autunno caldo. E più queste figure si rendono conto che Mister Starve è arrivato meno terrà un’opposizione fatta tutta per venire in soccorso al Cavaliere.
Nonostante lo spettacolo alle camere, la piazza ha già sfiduciato Berlusconi. Che può ben cavarsela con Fini. Ma l’avversario più insidioso, quando precipita la crisi, è proprio Mister Starve. E se questo signore decide di soggiornare in Italia, non ci saranno Minzolini, ballerine o spettacoli che terranno. Il popolo, come sa Maria Antonietta, non lo si contenta con le brioches.
nique la police
La Repubblica – 8 dicembre 2010
Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ’70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis (Il Fatto, 11 novembre).
Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di “accumulare punti”. Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la morale del tempo presente.
Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia – così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica – che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è “crocevia nella vita” d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.
In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensions and Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni.
Non così il precario nato dopo il ’70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi.
I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.
Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web – l’agora di queste generazioni – ma poco sui giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa – sulla crescita che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito – questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.
Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: “Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare”. Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.
Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni ’40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: “È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare”. Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.
Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. “È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l’occasione. (…) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi” (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).
Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: “Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito”. Nemmeno gli avversari del ’68 usavano aggettivi simili.
Negli italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: “Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore (Schweinehund) che abita ciascun uomo”.
di BARBARA SPINELLI
Repubblica.it – 07 dicembre 2010
A rischio molti servizi su pensioni e assistenza. I calcoli di Nidil-Cgil in seguito al taglio del 50 per cento della spesa. La riduzione dei contratti di lavoro precari negli uffici pubblici provocherebbe lunghe code agli sportelli.
ROMA – Tutti a casa: precari e interinali. Il conto alla rovescia è cominciato: a gennaio 2011 un esercito di lavoratori della pubblica amministrazione rischia di perdere il posto. Almeno 3.250 secondo i calcoli della Nidil Cgil, tra Inps, Viminale e Inpdap. Sul tavolo degli imputati, la manovra di bilancio approvata a luglio scorso (decreto 78/2010), che taglia del 50% la spesa per lavoro temporaneo nelle amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo e nelle università. A rischio sono dunque tutti i contratti di somministrazione (cioè gli ex interinali), a tempo determinato, co. co. co., formazione lavoro e lavoro accessorio.
“Nel taglio – spiegano al sindacato – sono comprese tutte le amministrazioni centrali dello Stato, che possono avere diramazioni territoriali, come accade per gli istituti previdenziali. La legge stabilisce inoltre che le disposizioni di riduzione della spesa costituiscono “principi generali, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, ai quali si adeguano le regioni, gli enti del Servizio sanitario nazionale e gli enti locali”. Ciò significa che si potrebbero produrre ulteriori tagli se le autonomie locali e il Ssn si adeguassero alla normativa”.
La Ragioneria generale dello Stato nel 2008 valutava che le persone legate da contratti precari con l’amministrazione pubblica erano circa 200mila. La Nidil Cgil fornisce però un calcolo prudenziale dei futuri tagli, limitato a soli tre casi: “Le persone colpite oggi dal taglio di Tremonti sono sicuramente oltre 3.250, tra Inps (1.800 lavoratori in somministrazione tuttora in forza), ministero dell’Interno (650 lavoratori a tempo determinato e 650 in somministrazione già tagliati a luglio) e Inpdap (circa 150 lavoratori in somministrazione)”.
E cosa fanno oggi questi lavoratori? “Servizi utili ai cittadini e alle imprese – risponde la Cgil – al ministero dell’Interno si occupano dei permessi di soggiorno per gli immigrati, evitando così che gli agenti di polizia si preoccupino di scartoffie invece che della sicurezza dei cittadini; all’Inps sono impegnati nelle prestazioni pensionistiche e di indennità di disoccupazione; all’Inpdap sono occupati non solo nelle prestazioni, ma anche nella gestione del patrimonio e, addirittura, nell’avvocatura”. Insomma i tagli rischiano di comportare “una drastica riduzione della qualità e quantità dei servizi pubblici o la loro cessazione di fatto”. La Cgil ricorda poi che “il taglio farà risparmiare allo Stato solo 100 milioni di euro per gli anni 2011, 2012, 2013 a fronte di una manovra di bilancio pari a oltre 12 miliardi per il 2011 e a circa 25 miliardi per gli anni successivi. Il taglio al lavoro precario incide, quindi, per lo 0,8% sull’ammontare della manovra per il 2011 e per lo 0,4% su quello per gli anni 2012 e 2013”.
Non è tutto. I lavoratori precari della P. A. rischiano di rappresentare un pezzo nascosto della crisi. “Quando infatti le imprese private vanno in difficoltà, anche i loro lavoratori precari possono utilizzare forme di ammortizzatori sociali in deroga. Questo nel settore pubblico non è ancora previsto – avverte la Cgil – perché non esistono questi strumenti di sostegno sociale ed economico, pur trattandosi di un vero stato di crisi nel quale si licenziano lavoratori”.
VLADIMIRO POLCHI
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