Precari per sempre: il nuovo ‘collegato’ lavoro
Il condono tombale per le imprese che utilizzano lavoratori precari è diventato legge di stato con la firma del Presidente Napolitano e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. E’ la legge 183/2010 che in 18 pagine modifica fortemente l’attuale disciplina del diritto del lavoro per i lavoratori precari e i neoassunti.
Ecco i punti salienti della riforma:
a) Per quanto riguarda le controversie di lavoro non vige obbligo di effettuare un tentativo di conciliazione, ma è possibile rivolgersi immediatamente all’autorità giudiziaria, a meno che non si decida di impugnare dinanzi al giudice un contratto di lavoro certificato. In questo caso, infatti, il tentativo di conciliazione presso la commissione che ha emesso l’atto di certificazione è obbligatorio.
b) Permane inoltre la possibilità di accedere immediatamente alle procedure arbitrali, nei casi e con le modalità previste dai contratti collettivi. L’arbitrato sarà disponibile in due forme alternative: durante il tentativo di conciliazione promosso presso la Direzione Provinciale del Lavoro, dove è la commissione di conciliazione a costituirsi in collegio arbitrale su richiesta delle parti; davanti al collegio costituito a iniziativa delle parti, con un rappresentante per ciascuna di esse e un presidente scelto di comune accordo. Infine, nei casi l’arbitrato davanti alle commissioni di certificazione dovranno essere queste stesse a istituire camere arbitrali proprie.
c) Viene introdotta la “certificazione” da parte dell’organo pubblico dei contratti di lavoro, con funzione di certificare la validità degli stessi nonché l’effettiva volontà del lavoratore a stipulare quel determinato contratto. Con la “certificazione” vi sarà la possibilità di inserire nel contratto una clausola c.d. compromissoria con la quale le parti devolveranno le eventuali e future controversie ad appositi collegi arbitrali sottraendole al giudizio alla magistratura ordinaria.
d) L’obbligo di impugnazione, entro i 60 giorni dalla ricezione della relativa lettera e/o comunicazione, dei provvedimenti di licenziamento (ora anche quelli verbali e quelli intimati nell’ambito delle tipologie contrattuali atipiche, oltre che per effetto di cessazione di rapporti di lavoro a termine, per disdetta oppure per interruzione in seguito alla scadenza temporale), con l’ulteriore obbligo di deposito dei relativi ricorsi giudiziali entro i successivi 270 giorni. Tali termini saranno vincolanti anche in tutti i casi cui il lavoratore voglia agire per ottenere l’imputazione di un determinato rapporto ad altro soggetto rispetto a quello che formalmente risulta il datore di lavoro (es. contratti di lavoro interinali). Mentre è fissato a 60 giorni il termine entro il quale rivolgersi al giudice in caso di rifiuto dell’arbitrato o di fallimento della conciliazione.
e) La previsione dì una indennità risarcitoria a carico del datore di lavoro in tutti i casi in cui il termine apposto al contratto dovesse essere ritenuto nullo da parte del giudice. L’indennità in questione va da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 12 mensilità, da applicarsi anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della legge.
Futuro precario
Questo il quadro generale. Un panorama dai contorni foschi per i diritti di milioni di cittadini-lavoratori precari, che si vedranno praticamente azzerate le già residue di resistere alla forza d’urto del capitale.
Ci vogliono muti e rassegnati
a) Ci si chiede per quali ragioni un legislatore di centro-destra che fa del liberismo e della l il proprio capo-saldo etico-politico tenti di “far passare” la validità di un contratto di lavoro attraverso la suddetta “certificazione” di un organo pubblico ?
La risposta a noi sembra chiara.
Nel nostro ordinamento, vige (vigeva?) il principio per cui il prestatore di lavoro è da ritenersi parte debole del rapporto contrattuale in quanto ogni sua volontà può subire forti condizionamenti da parte del datore di lavoro; ritenendosi, invece, che quando la volontà del lavoratore venga espressa con l’intervento dell’organo pubblico e dinnanzi allo stesso, venga manifestata libera da condizionamenti.
Ed allora, la “certificazione” servirà al datore di lavoro per pre-costituirsi la prova della formazione di una volontà del lavoratore libera da indebiti condizionamenti, eliminando la possibilità per quest’ultimo di contestare successivamente la regolarità del contratto di lavoro sottoscritto
Il gioco è fatto: si “certifica” in modo inoppugnabile e come libera una volontà in realtà “estorta” (d’altronde, vii immaginate un lavoratore che dinnanzi all’organo pubblico confesserà il ricatto?) e si precostituisce l’impossibilità di poter essere convenuto dinnanzi al giudice del lavoro (normale destinatario, per costituzione, della “conoscenza” di ogni controversia di lavoro).
Il primo tentativo della riforma non sembra essere quello di ridurre il contenzioso, quanto, piuttosto, quello di eliminarlo.
b) Ancora, si pensi alla introduzione dell’obbligo di impugnazione da parte del lavoratore della cessazione di qualsivoglia tipo di rapporto per potere datoriale nel termine dei 60 giorni, con obbligo di introduzione della controversia nei successivi 180 giorni.
E’ davvero una riforma prevista solo per esigenze di certezza del diritto e dei rapporti tra le parti? Tiene nella dovuta e giusta considerazione gli interessi di entrambe le parti in gioco? Oppure, anche su questo punto, la riforma inserisce nell’attuale ordinamento elementi di tutela per una sola (la solita ?) delle parti contrattuali ?
Corsa contro il tempo
Perché, al riguardo, anche il secondo tentativo che sembra perseguire la riforma in discussione sembra chiaro.
Innanzitutto, con la previsione di tempi ristrettissimi per le impugnazioni dei provvedimenti del datore di lavoro si vogliono abbattere il più possibile i costi delle eventuali illegittimità dagli stessi commesse, essendo ovvio che tali tempi abbiano quale prima automatica conseguenza quella di diminuire, in ipotesi di illegittimo recesso e/o interruzione del rapporto di lavoro a c.d. chiamata (vedasi ipotesi di rinnovi di contratti di somministrazione di lavoro o di contratti a termine), i tempi in cui l’azienda può vedersi esposta al risarcimento dei danni conseguenti a tali illegittimità (meno tempo, meno retribuzioni e contributi sul groppo, meno rischi per le proprie malefatte).
Ma ciò non basta; con l’operazione in discussione si tenta addirittura di azzerare ed abbattere completamente gli eventuali costi in esame, e ciò attraverso il prodotto del mix esplosivo e perverso che scaturisce dal rapporto tra i tempi stretti previsti per l’impugnazione ed il contesto di completa sottoposizione del lavoratore ai tempi di “chiamata” del datore di lavoro.
Basterà, infatti, che il datore di lavoro interessato prospetti una ipotesi di rinnovo contrattuale e/o chiamata a contratto anche ulteriore a 60 giorni dalla cessazione del precedente rapporto ed il gioco è fatto. Il lavoratore a cui è stata fatta intravedere la possibilità di una nuova “chiamata” , baratterà la rinuncia ad impugnare nei termini con la speranza del mantenimento del posto di lavoro.
Si passa così da una situazione (ante-riforma) in cui il lavoratore avrebbe potuto continuare a lavorare riservandosi di agire, ad esempio, per la tutela dei suoi diritti solo alla fine della successione di tutti i rapporti somministrati a termine illegittimi, ad una condizione (post-riforma) in cui ogni rinuncia alla impugnazione nel termine richiesto comporterà completa abdicazione ad ogni suo interesse. E si garantisce al datore di lavoro la sanatoria ai comportamenti ed agli atti illegittimi che ponga in essere.
Poco cash al posto dei diritti
c) Ed ancora, perché prevedere quale sanzione per la conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato una indennità risarcitoria da 2,5 a 12 mensilità (limitabili a 5 in particolari ipotesi) se non con l’unico scopo di evitare alle aziende l’obbligo di assumere a tempo indeterminato la forza lavoro illegittimamente assunta ed utilizzata “a scadenza”?
Anche sul punto, il terzo tentativo della riforma è chiaro ed incontrovertibile: al di là delle molteplici questioni interpretative, appare di tutta evidenza – ancora una volta – che l’obiettivo non è quello di predisporre valide ed efficaci tutele per il lavoratore assunto ed utilizzato con illegittimi contratti a termine, bensì quello di garantire al datore di lavoro la possibilità di apporre illegittimamente un termine al rapporto di lavoro senza far ricadere su di questo l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato ed i relativi costi.
Gli esempi valgono a far capire al lettore che la riforma in questione, ben lontana dal voler effettivamente perseguire gli obiettivi simulati e dichiarati (deflazione del contenzioso e riduzione dell’incertezza dei tempi dello stesso) ha quale intento quello di iniziare a chiudere un cerchio che si è iniziato a disegnare 15 anni fà.
Treu-Biagi-Sacconi: si chiude il cerchio
Allora, con la legge Treu, si cominciavano a prevedere ipotesi di lavoro c.d. flessibile attraverso il quale consentire alle aziende di utilizzare e sfruttare manodopera assunta da soggetti terzi, senza assunzione dei rischi di impresa che un qualsiasi rapporto di lavoro deve comportare.
Ed è attraverso tale sdoganamento che si è potuti arrivare al secondo passo del diabolico percorso, ovvero alla legge 30/03, attraverso cui si è compiuto un notevole salto in là nella codificazione del precariato prevedendo – a sovvertimento del principio generale per cui ogni posto di lavoro nasce a tempo indeterminato salvo eccezioni – che dette eccezioni venissero trasformate in regola, consentendo all’impresa di potere disciplinare rapporti di lavoro di fatto pienamente subordinati con contratti che di tale tipologia nulla hanno a che vedere.
Con la riforma in questione il passo è definitivo ed il piano si sposta verso l’unico contesto i cui si fanno i giochi, ovvero quello processuale e della tutela effettiva dei diritti del lavoratore.
La precarietà ormai imposta e codificata sul piano dei rapporti sostanziali, viene ora introdotta sul piano delle conseguenze delle illegittimità del datore di lavoro, vuoi creando ogni artificio per rendere più difficile al lavoratore l’esercizio dei diritti connessi all’art. 24 della Costituzione, vuoi tentando di abbattere completamente i costi e le sanzioni che le illegittimità del datore di lavoro dovrebbero ancora prevedere.
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