Dopo anni di contratti a termine, i lavoratori sono trasformati in “fornitori” Non cambia nulla: stesso orario e stesso ufficio. Ma l’impresa risparmia oltre il 33%
ROMA – L’ultima frontiera della precarietà si chiama “partita Iva”. Altro che indice dell’indomabile vitalità imprenditoriale. Questa è tutta un’altra storia che non riguarda neanche un po’ le seducenti formule del capitalismo personale. Qui si parla di cocopro: collaboratori a progetto costretti a diventare titolari di “partita Iva” per non perdere il lavoro, anche se precario.
Difficile stimare quanti siano i lavoratori in transizione verso l’imprenditoria forzata. Nessuno l’ha fatto, ma non ci si sbaglia se si ipotizzano decine di migliaia di persone. Si vedrà meglio quando l’Inps renderà pubblici i numeri sui nuovi iscritti al Fondo Gestione Separata. Lì, dati del 2007, le “partite Iva” di professionisti non iscritti ad albi o associazioni erano circa 250 mila, 30 mila in più in un solo anno. Reddito medio intorno ai 15 mila euro, poco più di mille al mese. Dai web designer ai grafici pubblicitari; dai redattori delle grandi case editrici ai lobbysti, fino all’antica, tradizionale, segretaria, imprenditrice di se stessa però. Tutti rigorosamente a mono-committenza, cioè fornitori di una sola azienda. Insomma, false “partite iva”.
Di certo 	questo è un altro capitolo della via italiana alla 	flessibilità, in cui con il concorso della Grande Recessione, 	l’obiettivo principale di molte aziende è quello di tagliare 	i costi per provare a sopravvivere.
 Il fenomeno non è 	nuovo, va detto, ma con la crisi è riaffiorato dovunque, nel 	ricco settentrione terziarizzato come nella indolente area del 	lavoro para-pubblico romano. Ed è un fenomeno che spinge una 	categoria già debole ai livelli più bassi della scala 	della precarietà. “Le partite Iva diventano sostitutive 	dei cocopro”, commenta Patrizio Di Nicola, sociologo alla 	Sapienza di Roma, tra i più attenti studiosi dell’universo 	magmatico del lavoro precario. Questa è la verità.
A compiere il percorso da atipico a 	“libero professionista”, senza più nemmeno un 	accenno di diritti e di tutele, è ancora la generazione dei 	trentenni, l’ala marginale del mercato del lavoro.
 Eppure questo 	pezzo di knowledge worker, lavoratori della conoscenza, 	intellettuali moderni, flessibili e innovativi, avrebbe dovuto 	rappresentare l’avanguardia di una sorta di neo- borghesia in una 	società post-industriale. Questa, a sua volta, avrebbe dovuto 	spingere verso un incremento della produttività e arrestare 	il nostro declino, sfruttando le nuove tecnologie. La realtà 	è stata diversa e si è tradotta soprattutto in un 	progressivo e malcelato tradimento nei confronti di una generazione 	di giovani professionisti.
A quella generazione appartiene 	anche Astrid D’Eredità, archeologa, tarantina di nascita, 	romana di adozione. Racconta che da piccola provava quasi invidia 	per chi possedeva la tessera di Metro, il grande supermercato 	all’ingrosso per i professionisti, gli imprenditori, le partite Iva, 	appunto.
 Quei capannoni blu con scritta in giallo a lettere 	maiuscole erano – per lei – il simbolo delle libertà di 	impresa, del dinamismo aziendale, dell’individualismo contro il 	pigro tran tran dell’impiego fisso. Entrare o meno al Metro faceva 	la differenza. Era uno spartiacque quasi di classe sociale, certo di 	modelli culturali. “Ora – dice – ho la partita Iva, ma non sono 	mai entrata al Metro”. Ecco. Lei aveva un contratto di 	collaborazione finché lavorava in Puglia, poi a Roma ha 	scoperto che senza partita Iva non si fa nulla nel suo settore. Si 	deve essere “imprenditori di se stessi”, come si diceva 	agli albori della flessibilità. Racconta: “La frase 	tipica che ti rivolgono è questa: ovviamente bisogna che lei 	si apra una partita Iva… “. E si comincia: non più 	dipendenti o para-dipendenti, bensì fornitori. Sulla carta. 	Perché nei fatti non cambia nulla: stesso stipendio (ma senza 	contributi), stesso orario, stesso vincolo di subordinazione. In 	alcuni contratti l’ipocrisia rompe ogni indugio e precisa a scanso 	di equivoci: “Il fornitore non avrà i benefici previsti 	per i dipendenti, inclusi assicurazioni, pensione, assistenza e 	altri benefit riservati agli impiegati”. E ancora: “Le 	suddette attività hanno carattere professionale autonomo e 	non potranno mai essere configurate come rapporti di lavoro 	subordinato o di collaborazione”.
Osserva Fulvio 	Fammoni, segretario confederale della Cgil: “Sono due le 	motivazioni principali che spingono in questa direzione: il costo 	per le aziende che si riduce all’osso e, poi, la totale liberà 	d’azione sulle partite Iva che possono essere lasciate a casa, 	prima, e riprese, poco dopo”.
 L’Italia è la patria 	del lavoro autonomo: il 27% dell’occupazione complessiva, il triplo 	rispetto alla Danimarca e il Lussemburgo, il doppio rispetto alla 	Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Olanda. Ci supera solo la 	Grecia. Tutto questo, tra l’altro, ha aiutato anche l’anomalia delle 	partite Iva. Si calcola, per esempio, che con le partite Iva le 	aziende risparmino circa il 25% rispetto a un contratto di 	collaborazione e oltre il 33% rispetto a un contratto di dipendenza.
Carla S., 31 anni, pubblicitaria genovese ha provato a 	resistere perché non ha mai ambito a far parte del celebrato 	universo delle partite Iva. Da tre anni lavora in una delle più 	grande agenzie pubblicitarie del capoluogo ligure. Prima cocopro 	rinnovato, quindi contratto a termine. Poi la crisi arriva in 	azienda. Il consulente del lavoro suggerisce al titolare di 	ricorrere ai contratti di apprendistato. Ma Carla, che comunque 	tornerebbe indietro all’inizio della sua carriera, è troppo 	“vecchia” per l’apprendistato perché ha appena 	superato la soglia dei trent’anni. “Sono una classica 	bambocciona, vivo con i miei genitori. Ma non potrei fare altrimenti 	con 1.100 euro al mese”.
 Anche per questo all’inizio ha 	detto no alla partita Iva e, in questo caso, al lavoro a casa. Poi 	ha quasi accettato, ha aperto una trattativa, ha chiesto il doppio 	per le spese che dovrà sostenere. Le hanno replicato che lo 	stipendio resta uguale e che dovrà anche formare le due nuove 	apprendiste. A Carla, come succede spesso, l’azienda ha proposto di 	aiutarla nel tenere la contabilità. Queste sono le aziende 	“più illuminate”, come le ha chiamate Andrea Bajani 	nel suo cinico racconto “Mi spezzo ma non m’impiego”, 	uscito qualche anno fa per Einaudi.
Anche ad Andrea Brutti, trentenne consulente ambientale, hanno imposto di diventare “imprenditore”, dopo anni di contratti di collaborazione a progetto. “C’è un problema di costi”, mi dissero. Per un po’ ha fatto anche il doppio lavorista con partita Iva: un po’ lobbysta per una associazione ambientalista un po’ impiegato in un’altra. Poi ha dovuto mollare il secondo lavoro perché gli orari erano incompatibili. Nemmeno un contratto a tempo determinato è ormai un’alternativa. “Con 800 euro al mese per 35 ore di presenza a settimana non mi conviene”. Questa è la trappola della partita Iva.
Infine c’è Federico D., manager di 39 anni, trasformato in pochi frettolosi minuti in partita Iva, dopo otto anni da dirigente in una multinazionale di servizi ospedalieri. “Era un venerdì pomeriggio quando venni chiamato dal mio capo. Ho una notizia cattiva e una buona, mi disse velocemente. La cattiva è che il tuo contratto si trasforma in consulenza, la buona è che il trattamento netto migliora. Poi mi mise in mano la lettera di licenziamento”. Ma cos’è cambiato? “Nulla. Stesso orario, stesso ufficio, stesso lavoro. Ma per l’azienda io non sono più un costo, bensì un investimento”. Una finzione contabile. Già.
Da repubblica 9/11/09








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