Anche quel giorno Mimmo era agitato. Da due settimane dormiva pochissimo, un pensiero non gli dava tregua: 5 fratelli a 40 metri d’altezza ed un paese, l’Italia, che faceva finta di non sentire e di non vedere nonostante la gru di Brescia occupasse da molti giorni le prime pagine dei quotidiani nazionali. Il presidio, le cariche, i contatti con i gruisti, i cortei, gli incontri, l’entusiasmo, la pioggia: immagini da una lotta tatuate sottopelle. Poi ad un certo punto 9 fratelli egiziani tra i protagonisti della protesta vengono prelevati dalla Polizia, destinazione il lager di Milano: il Cie di via Corelli. Anche Mimmo, che in realtà si chiama Mohamed, è egiziano e si attiva subito per far qualcosa per i suoi connazionali, sa che il rischio che vengano espulsi è molto alto. Con questa inquietudine arriva lunedì 15 novembre in via Porpora a Milano: davanti al Consolato egiziano è organizzato un sit-in di protesta contro il trattenimento dei 9 ragazzi. Una delegazione (di cui Mimmo fa parte) viene fatta salire e i funzionari del Consolato negano di aver dato l’autorizzazione per la deportazione (comunicazione che nel pomeriggio verrà smentita dai fatti).