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										 Settimana scorsa, con maggior o minor enfasi a seconda del diverso livello di sudditanza al governo Monti, numerosi sono stati i commenti dei quotidiani italiani relativi all’andamento del mercato del lavoro pubblicati dall’Istat. 
Riguardo ad essi, due sono i principali elementi da segnalare: l’aumento del tasso di disoccupazione al 10,7% e il record raggiunto dalla disoccupazione giovanile, oggi pari al 35,1%. In un solo anno sono stati creati quasi 600.000 nuovi disoccupati. Si tratta di dati drammatici che evidenziano l’acuirsi della crisi e che non sorprendono, dal momento che nel corso dell’ultimo anno sono stati ben cinque i provvedimenti di austerity presi dai governi in carica, una manovra recessiva di quasi 100 miliardi di euro. 
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										 Per uno spezzone metropolitano della ri/generazione precaria 
La crisi ha un merito: fa comprendere che il mondo del lavoro e del non lavoro stanno sulla stessa barca, e che rischia di affondare. Operai, migranti, atipiche, partite Iva mono-committenti, studenti, disoccupate, tutte e tutti precari. E la precarietà è allo stesso tempo unificante e frammentata. Unificante perché è il modo attuale dello sfruttamento insito nel rapporto di lavoro, fatto di subalternità e ricattabilità. Frammentata, perché ognuno la percepisce in modo diverso. Come reagire? Le forme sindacali non sono adeguate e le proposte dei partiti politici “amici” (si fa per dire) fanno acqua da ogni parte. La cassaintegrazione è scambismo politico e sperequazione. 
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										Tra luglio 2008 e luglio 2010 si sono  persi 881mila posti di lavoro. Colpiti per primi i lavoratori  temporanei. Netto calo delle assunzioni, ma licenziamenti contenuti  grazie alla cassa integrazione. 
Ricapitoliamo i dati essenziali della crisi occupazionale. Secondo i dati Istat – forze di lavoro, dopo il livello massimo di occupazione raggiunto in Italia nel luglio 2008, nel successivo biennio contrassegnato dagli effetti della recessione, il calo degli occupati è stato pari a 881mila unità (utilizzando i dati relativi al luglio 2010): da 23,8 milioni si è scesi a 22,9 milioni (- 629mila è il dato destagionalizzato). Sui dati grezzi, il calo è di poco inferiore al 4 per cento, sui dati destagionalizzati si attesta al -3 per cento. Ècome dire che per ogni gruppo di 30-35 occupati, ora ce n’è uno in meno. 
  
  
Il calo dell’occupazione risulta rallentato nei primi due trimestri del 2010, ma è di sicuro troppo presto per parlare di un’inversione di tendenza e dell’avvio del recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi ventiquattro mesi. 
  
LE DUE FASI DELLA CRISI OCCUPAZIONALE 
I dati amministrativi disponibili, relativi a tutti i rapporti di lavoro dipendente aperti o chiusi, per quanto non disponibili per tutte le Regioni, consentono alcune rilevanti precisazioni. (1) 
 I saldi negativi tra assunzioni e cessazioni confermano innanzitutto la riduzione effettiva dei posti di lavoro, che deriva essenzialmente dal netto calo delle assunzioni: attorno al -20 per cento tra il 2009 e il 2008 e pressoché stabili nel primo semestre 2010 rispetto al corrispondente semestre del 2009. Per quanto riguarda le cessazioni, l’incremento di quelle involontarie (licenziamenti o conclusione naturale dei rapporti a termine) è stato controbilanciato dal calo di quelle volontarie (dimissioni). L’effetto complessivo finale delle due tendenze è la netta contrazione della mobilità nel mercato del lavoro. 
 I dati amministrativi consentono inoltre di distinguere chiaramente, nel decorso della crisi, due fasi: la prima è quella della iniziale risposta del mercato del lavoro al veloce tracollo, dopo il settembre 2008, dei fatturati, dell’export e degli investimenti; la seconda è quella dell’adattamento alla crisi come si è dipanato dalla primavera 2009, quando l’economia italiana ha iniziato un periodo di oscillazioni continue tra annunci di debole ripresa e frustrazioni per il suo mancato decollo. 
 Nella prima fase la contrazione dei livelli occupazionali è passata soprattutto attraverso la diminuzione delle assunzioni e delle proroghe, mentre relativamente contenuto è stato l’incremento dei licenziamenti, arginato soprattutto dal diffuso ricorso alla cassa integrazione. Ciò ha generato un’immediata riduzione del numero complessivo di posizioni di lavoro temporaneo – la precarietà è divenuta disoccupazione – e una diminuzione della loro quota sul totale. I rapporti di lavoro temporanei si sono ridotti di numero (in particolare le “missioni”, vale a dire i periodi di utilizzo di lavoratori con contratto di somministrazione, si sono dimezzate) e, leggermente, anche di durata. Inoltre si è drasticamente ridotta la probabilità per i lavoratori impiegati con contratti temporanei di ottenere proroghe o di rioccuparsi con facilità presso altre imprese. Non sono diminuite, invece, le trasformazioni di rapporti temporanei in rapporti a tempo indeterminato, evidentemente già “scontate” con scelte di politica del personale antecedenti alla crisi. I settori protagonisti, in negativo, del restringimento della base occupazionale come prima reazione all’avvio shock della crisi sono stati il manifatturiero in genere (soprattutto meccanico) e il settore delle costruzioni; i lavoratori più direttamente interessati sono stati i giovani e gli immigrati, per lo più maschi. 
 La seconda fase, che possiamo datare dalla fine dell’inverno 2008-2009, appare caratterizzata da una minor selettività, ma da una maggior pervasività degli effetti della crisi: come il sasso gettato nell’acqua produce onde successive sempre più deboli ma sempre più larghe, così la riduzione dei posti di lavoro si è progressivamente allargata anche a diversi segmenti del terziario, ha coinvolto manodopera femminile, sta interessando lavoratori non solo giovani, soprattutto sta riducendo i posti di lavoro a tempo indeterminato, proprio mentre risultano un po’ risalite le attivazioni di contratti di somministrazione e di lavoro temporaneo. (2) 
 Appare evidente l’estrema cautela delle imprese in ogni scelta di recruitment e il favore relativo assegnato alle formule meno impegnative, dal part-time al lavoro intermittente, dai voucher alle collaborazioni a progetto. Mentre i candidati lavoratori devono fare i conti con una fase di scarsa domanda e quindi di deciso svantaggio negoziale. Per una quota difficile da stimare, ma non proprio irrisoria, di lavoratori immigrati, la strada del ritorno a casa, soprattutto se provenienti dai paesi dell’Est Europa (e specie se comunitari), è diventata un’opzione concretamente perseguita. 
  
NESSUN MIGLIORAMENTO ALL’ORIZZONTE 
Nessuna previsione, tra quelle fin qui disponibili, si spinge a ricavare inferenze positive sul livello complessivo dell’occupazione dalle stime che girano sulla dinamica del Pil. Ben che vada, assisteremo ancora al proseguire degli aggiustamenti: una modesta, quasi impercettibile, ripresa dei rapporti di lavoro temporanei e parasubordinati nei settori che hanno catturato la domanda di mercati internazionali espansivi (Germania, Asia), nel quadro di un consolidamento di livelli occupazionali complessivi inferiori a quelli pre-crisi. Mentre per diverse aziende ci sarà la “risoluzione” – negativa o positiva – delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato fin qui “congelate”: così dalla gestione delle crisi di impresa via Cig l’attenzione si dovrà spostare alla gestione della disoccupazione e dei rischi che essa divenga di lunga durata. Disoccupazione che, alla fin fine, potrà essere curata solo dalla creazione di nuovi posti di lavoro, connessi a nuove iniziative imprenditoriali e all’esplorazione di nuovi segmenti di domanda, interna ed estera. 
 (1) Vedi ad esempio per il Veneto il numero 30 di Misure (www.venetolavoro.it). (2) I licenziamenti in questi mesi continuano su livelli mensili non distanti nel complesso da quelli del 2009, per effetto della compensazione tra i licenziamenti nelle piccole imprese – che dopo essere quasi raddoppiati tra il 2008 e il 2009, nel primo semestre di quest’anno sono diminuiti del 15 per cento rispetto al primo semestre 2009 – e i licenziamenti nelle imprese over 15 addetti, che sono aumentati del 40 per cento tra il 2008 e il 2009 e ulteriormente – attorno al 10-15 per cento rispetto al corrispondente semestre del 2009 – nel primo semestre del 2010. 
  
http://www.lavoce.info di Bruno Anastasia 
 
 								 	
						
		
								
										Istat: nel 2009 crolla l’occupazione,  
persi 380mila posti di  lavoro 
Prima flessione dal ’95: il tasso di disoccupazione medio è salito  al 7,8% dal 6,8% della media del 2008 
ma nel quarto trimestre dell’anno l’indice è cresciuto  all’8,6% 
Istat: nel 2009 crolla l’occupazione,  
persi  380mila posti di lavoro 
Prima flessione dal ’95: il tasso di disoccupazione  medio è salito al 7,8% dal 6,8% della media del 2008 
  
MILANO –  Ora anche le statistiche confermano quello che è  sotto gli occhi di tutti da oltre un anno. In Italia aumenta la  disoccupazione. Gli occupati nella media 2009 sono infatti diminuiti di  380 mila unità rispetto alla media 2008. Lo comunica l’Istat,  sottolineando che si tratta del primo calo annuale dal 1995. Il tasso di  disoccupazione medio è salito al 7,8% dal 6,8% della media del 2008. 
DISOCCUPATI –  Il tasso  disoccupazione nel quarto trimestre 2009 è salito all’8,6% (dato non  destagionalizzato), il livello più alto dal 2001. Lo rileva l’Istat,  sottolineando che i senza lavoro hanno raggiunto quota 2,145 milioni di  unità,  369mila in più rispetto allo stesso periodo 2008.  Nel quarto  trimestre inoltre  il numero di occupati cala dell’1,8%, pari a 428 mila  unità rispetto allo stesso periodo del 2008. 
CRESCE LA DISOCCUPAZIONE ITALIANA  –  Nella media del 2009 – sottolinea l’Istat l’occupazione si riduce su  base annua del 1,6% (-380 mila unità). Alla flessione particolarmente  robusta dell’occupazione maschile (-2% pari a 274 mila unità in meno  rispetto alla media 2008) si associa quella meno accentuata  dell’occupazione femminile (-1,1% pari a 105 mila unità).  Il calo  dell’occupazione si concentra al sud (-3% pari a 194 mila unità in meno)  ma è alto anche nel nord (-1,3% pari a 161 mila unità in meno) mentre  resta contenuto al centro (-0,5% pari a 25 mila unità in meno). Il  risultato negativo dell’occupazione totale tiene conto della riduzione  molto accentuata della componente italiana (-527 mila unità)  controbilanciata dalla crescita, pur se con ritmi inferiori al passato,  di quella straniera (+147 mila unità di cui 61 mila uomini e 86 mila  donne). Nel complesso nel 2009 lavorano 23 milioni e 025 mila per un  tasso di occupazione complessivo del 57,5% (-1,2 punti percentuali sulla  media 2008). 
TREMONTIE SACCONI – «Non ho ancora visto gli  ultimi dati sull’occupazione diffusi oggi dall’Istat ma confermo quello  che ho già detto nei giorni scorsi, e cioè che i dati medi del nostro  Paese sono sostanzialmente dati di tenuta migliore degli altri Paesi e  che sull’occupazione il dato italiano è migliore della media europea».  Così il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha risposto a chi gli ha  chiesto di commentare gli ultimi dati in materia di occupazione.  «L’ultimo dato che ci riguarda – ha aggiunto Tremonti – sulla  disoccupazione ci attestava all’8,6% mentre la media europea supera il  10%. Non nego che c’è la crisi, l’ho detto per primo in tempi non  sospetti che sarebbe arrivata, ma la disoccupazione in altri paesi  arriva anche al 20%. Ribadisco – ha concluso il ministro dell’Economia –  sono dati che preferiremmo fossero diversi ma sono migliori rispetto ad  altri».   
«Il dato medio della disoccupazione del 7,8%  – gli fa eco  il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi – si confronta con una media  Eurozona del 9,4% secondo un differenziale che si conferma anche nel  dato congiunturale di gennaio. Peggiori dei dati italiani sono stati  quelli di molti Paesi tra i quali Francia, Svezia, Spagna che  addirittura supera il 18% e gli stessi Stati Uniti nel 2009 hanno  registrato una disoccupazione al 9,3%. Nonostante l’Italia sia  un’economia fortemente esportatrice il riverbero della crisi sulla  cessazione di rapporti di lavoro è stato contenuto dalla decisione di  utilizzare strumenti come i contratti di solidarietà e la cassa  integrazione sotto varie forme». 
  
DAMIANO -  Di tutt'altro parere  Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera: «Gli  ultimi dati Istat confermano la gravità della caduta dell'occupazione.  Tra il 2008 e il 2009 sono stati persi quasi 400 mila posti di lavoro.  Non vorremmo sentire nuovamente le rassicurazioni del ministro Sacconi  che tutte le volte ci spiega che il nostro tasso di disoccupazione è al  di sotto della media europea». «Quello che il ministro Sacconi dimentica  sempre di dirci - prosegue Damiano - è che il dato più rilevante è  costituito dal tasso di attività che si attesta al 57,5% con un calo  dell'1,2% ed è tra i più bassi dell'Ue. Sottovalutare ancora i problemi  occupazionali sarebbe colpevole».  Per Damiano «il governo anziché  tingere artificialmente di rosa la situazione, a puro scopo elettorale,  farebbe bene a dire la verità e a mettere in cantiere misure idonee per  uscire dalla crisi: una politica industriale che guardi all'innovazione e  individui i settori strategici; l'adozione di ammortizzatori sociali  universali; il potenziamento del reddito delle famiglie per stimolare i  consumi interni, come da tempo chiede il Pd con le sue proposte». 
 								 	
						
		
								
										Da La Repubblica, Federico Pace 
In un anno la quota dei senza lavoro è cresciuta di sette punti  percentuali. E nei primi mesi del 2010 la domanda di laureati in  economia e commercio è crollata del 37 per cento. Si indebolise ancora  di più il filo già esile della stabilità. E pure la paga diminuisce  ancora. I risultati del rapporto di AlmaLaurea su oltre 210 mila  giovani.  
Sono, loro malgrado, il simbolo di un’Italia in crisi. Un Paese che non  accetta ricambi generazionali, non conosce meritocrazia e preferisce  tenerli relegati alle periferie del mondo attivo. I laureati, sempre più  disoccupati, sono le icone di un’era economica in cui il lavoro ai  giovani viene più “somministrato” che offerto. Lasciato intravedere per  qualche mese, e poi sfilato via dagli occhi e dalla quotidianità. Sono  la risorsa a cui non vengono concesse più concrete prospettive e su cui,  cinicamente, pochissimi vogliono investire ancora.  
Nei primi due mesi di questo infausto 2010, le imprese hanno smesso di  averne necessità. Bastano pochi numeri: il fabbisogno delle aziende  italiane di laureati in economia e commercio è stato inferiore del 37  per cento a quello mostrato negli stessi mesi dell’anno scorso. Non  solo, pure di ingegneri i direttori del personale ne chiedono sempre  meno. E questo giusto per dire dei due titoli considerati più forti e  rivendibili sul mercato del lavoro. Nel complesso, la quota di chi è  ancora disoccupato un anno dopo avere concluso il ciclo di studi  “specialistico” (tre anni più due) è aumentata di sette punti  percentuali. Un’evoluzione che non risparmia nessuno tipo di percorso di  studio. I dati sono quelli del Rapporto 2010 di Almalaurea, presentato  oggi a Roma e che ha coinvolto 210 mila giovani di tutta Italia.  
Emergenza giovani. Le evidenze svelano, una volta ancora di più, la  crucialità del tema e la necessità di interventi in questa area  strategica da un punto di vista ecomomico, sociale e culturale. “Una  delle principali arene su cui si gioca il futuro dell’Europa e  dell’Italia – ha detto Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea che  monitora da dodici anni il fenomeno – è quella in cui si forma e si  utilizza il capitale umano. Approfondire una riflessione di ampio  respiro su questo versante, evitando i catastrofismi ma anche la  politica dello struzzo, vuol dire avere a cuore il futuro ed evitare che  il nostro Paese, all’uscita dalla crisi, si trovi in posizione marginale  nel contesto internazionale. Vuol dire farsi carico di una vera e  propria emergenza giovani evitando che alcune generazioni di ragazze e  ragazzi preparati restino senza prospettive e mortificati fra mercati  del lavoro che non assumono ed un mondo della ricerca privo di mezzi”.  
Ancora disoccupati. L’anno scorso erano ancora in cerca del loro primo  impiego il 16,5 per cento dei neolaureati triennali. Quest’anno sono  arrivati al 22 per cento. Con lo stesso destino si sono misurati anche i  laureati che hanno concluso il ciclo dei cinque anni: l’anno scorso  erano senza lavoro il 14 per cento, oggi sono il 21 per cento. Così come  sta accadendo a medici, architetti e veterinari, ovvero gli specialisti  a ciclo unico, che quest’anno si misurano con una disoccupazione del  quindici per cento, l’anno scorso era il nove per cento (vedi tabella).  
Incrementi, di gran lunga superiori a quelli della disoccupazione media,  che segnano un ulteriore e dramamticato passo indietro. E seppure è vero  che i laureati nel lungo periodo intraprendono un destino occupazionale  meno disagiato dei loro coetanei diplomati, sembra altrettanto vero che  questi ultimi mesi stiano mettendo a repentaglio e frammentando ancora  di più i percorsi occupazionali di più di una generazione.  
Il labirinto della precarietà. Tanto che questo anno si è indebolito  ancora di più il filo già esile della stabilità occupazionale facendoli  diventare ancor più atipici e meno stabili. Dei ragazzi e ragazze usciti  dalla “specialistica” che hanno trovato lavoro, il 52 per cento lo ha  fatto passando per contratti di collaborazione o altre forme precarie.  L’anno scorso erano il 49 per cento. I rapporti di lavoro stabili sono  stati il 26,1 per cento mentre erano il 27,8 per cento l’anno passato. E  cresce la quota anche di chi lavora senza aver alcun tipo di contratto.  Ancora più accentuata è stata l’evoluzione che ha coinvolto i  neolaureati triennali dove l’incremento della precarietà è stata pari al  tre per cento con una pari riduzione delle forme contrattuali più stabili.  
L’infausto nomignolo. Così, nonostante gli anni stiano passando, nelle  tasche di ciascuno di loro continua a finire sempre meno. Incollati  all’infausto nomignolo di “generazione mille euro”, dopo quasi dieci  anni continuano a guadagnare la stessa cifra, se non meno. Chi si era  laureato entro la fine del 2008, dopo un anno prende al mese una media  di 1.050 euro. L’anno scorso erano un poco di più e la contrazione  registrata oscilla tra il 2 per cento dei laureati “triennali” e il 5  per cento degli specialistici (vedi tabella).  
La curva a forma di “L”. Nel tentativo di intuire quello che ci aspetta,  gli economisti stanno cercando di indovinare quale andamento avrà la  ripresa (se e quando questa arriverà). Nessuno sa davvero cosa  succederà. Anche il premio Nobel Paul Krugman ha detto di non averne  alcuna idea. Pochi sono quelli che dicono che la curva disegnerà una  forma a V, ovvero dopo la discesa rapida ci sarà poi una ripresa  altrettanto rapida. Altri pensano ad una ripresa più lenta (una curva ad  U). In assenza di concreti interventi, il sospetto è che rischiano di  avere ragione queli che immaginano che dopo la crisi e il crollo non ci  sarà alcuna ripresa nel numero di offerte di lavoro. La curva in questo  caso avrà la forma della lettera “L”. Per una sorta di crudelissima  ironia, la stessa con cui inizia la parola “laurea”.  
LA PAGA DEI LAUREATI  
Guadagno mensile netto (in euro) ad un anno a confronto per tipo di  corso e a valori rivalutati (in base agli indici Istat dei prezzi al  consumo)  
Stipendio mensile (euro)  
Quest’anno – L’anno scorso Delta(variazione)  
Laureati di primo livello (3 anni) 1.109 1.136 -27  
Laureati specialistici (3+2) 1.057 1.125 -68  
Specialisti a ciclo unico 1.110 1.149 -39  
Fonte: ALMALAUREA, XII Rapporto sulla condizione occupazionale dei  laureati, marzo 2010  
LAUREATI, UN ANNO DA DISOCCUPATI  
Tasso di disoccupazione ad un anno dalla laurea per tipo di corso  
Tasso disoccupazione  
Quest’anno –  L’anno scorso –  Delta(variazione) 
Laureati di primo livello (3 anni) 21,9% 16,5% +5,4%  
Laureati specialistici (3+2) 20,8% 13,9% +6,9%  
Specialisti a ciclo unico 15,0% 8,9% +6,1%  
Fonte: ALMALAUREA, XII Rapporto sulla condizione occupazionale dei  laureati, marzo 2010 
 								 	
						
	
					
    
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