Un anno di crisi

titanic-adventure-slide-1Se guardiamo alla congiuntura economica, il 2009 si chiude con segnali contrastanti. Se guardiamo alla situazione sociale, l’anno si chiude in modo tragico.

Nel corso degli ultimi 12 mesi, le borse finanziarie mondiali hanno recuperato circa il 20%, oltre il 40% se facciamo riferimento al punto di minimo toccato nel marzo scorso. E’ un andamento atteso, parzialmente “drogato” , se consideriamo che i mercati finanziari sono oggi il cuore pulsante (nel bene e nel male) del biocapitalismo contemporaneo. I facili catastrofisti di fine 2008 sono stati serviti. Tuttavia tale risultato è il risultato, soprattutto negli ultimi due mesi, di fasi altalenanti, con momenti anche di forte ribasso, sintomo di un’incertezza e una volatilità ancora troppo elevata. E non può essere altrimenti, visto le numerose “bombe” ancora inesplose che costellano il futuro dei mercati finanziari, dopo il caso Dubai (dalle carte di credito, all’esplosione di nuovi “hedge funds”, al rischio legato all’eccessivo indebitamento pubblico di molti paesi “importanti”: Grecia, Spagna, Irlanda, fra tutti, alla carenza di controllo dei cd. “fondi sovrani”). L’elevata immissione di liquidità da parte degli Stati e delle Banche Centrali (come droga iniettata nelle vene) ha consentito di tamponare le principali falle finanziarie e ha permesso, nella seconda parte dell’anno, l’arresto della caduta del Pil prima che raggiungesse livelli a rischio “default”. Nel frattempo, i dati del mercato del lavoro evidenziano una situazione drammatica. La disoccupazione in tutti i paesi avanzati ha toccato e superato il 10%, sino a oltre il 15% in alcuni contesti produttivi (Spagna e Usa). Il tasso di disoccupazione italiano, “ufficialmente” all’8,2%, inganna. Se si considerano anche i cassi-integrati e gli scoraggiati, il dato del nostro paese non solo si allinea ma supera la media europea del 12%. Ma non è solo il dato della disoccupazione ad allarmare. Esso è semplicemente la spia di una situazione ancora peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo cognitivo, infatti, l’esercito industriale di riserva non è più costituito dai disoccupati ma sempre più dai precari. E sono proprio i dati sulla precarizzazione che alimentano previsioni poco rosee sulla capacità di tenuta del nostro paese, una volta fuoriusciti dalle fasi più buie della crisi. A dispetto di quanto spergiurano i nostri governanti, novelli ufficiali che ballano sul Titanic che sta naufragando.

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Ciò a cui stiamo assistendo è, infatti, un costante scivolamento verso le fasce più deboli e meno protette della precarietà. Chi sino a poco tempo fa aveva un contratto stabile di lavoro, se licenziato, oggi si deve accontentare di un contratto atipico, magari con qualche garanzia in termini di previdenza e diritti del lavoro. Chi, invece, si trovava già nel limbo della condizione precaria, assiste, impotente, in assenza di qualunque forma di ammortizzatore sociale che garantisca continuità di reddito, ad un degrado delle proprie condizioni contrattuali e salariali. In ultimo, stanno i migranti, soggetti per di più alla repressione quotidiana dei più elementari diritti di cittadinanza.

Si tratta di una tendenza al peggioramento delle condizioni soprattutto di reddito che colpisce tutti i settori lavorativi, in particolari quelli legati alle nuove professioni del terziario, a maggior contenuto cognitivo,a istruzione più elevata e più soggetti alla precarietà. Paradossalmente, sono gli operai dell’industria che meglio riescono ad organizzarsi per impedire la chiusura di fabbriche (a causa di speculazioni immobiliari e finanziarie) , proprio perché gli unici in grado di accedere ai quei pochi e miseri ammortizzatori sociali che ancora esistono (Cig e mobilità) e quindi di essere, seppur limitatamente, meno ricattabili sul piano del reddito. Le lotte in atto (portate spesso all’estremo) ci mostrano che anche la capacità concertativa del sindacato è venuta meno. La vertenza appena chiusa per il rinnovo contrattuale dei giornalisti è, da questo punto di vista, paradigmatica. In cambio di quattro miseri soldi (ma conditi a parole dal riconoscimento di una professionalità sempre più servile), si scaricano i costi della ristrutturazione e della crisi del settore su quei 2/3 della categoria (spesso non riconosciuti professionalmente) che lavorano nei media come precari invisibili a bassissimo salario. Esempi simili sono riscontrabili nel settore della ricerca come in quello dell’istruzione, oppure nel settore cosiddetto dei “creativi”.

Le ricadute economiche e sociali di tale situazione si fanno già sentire. I più recenti dati annotano un ulteriore aumento della concentrazione della ricchezza: il 10% della popolazione più ricca arriva a detenere quasi il 40% della ricchezza patrimoniale complessiva (dati BdI). L’ideologia neoliberista e neo-con del “siamo tutti proprietari” si infrange miseramente contro lo spirito predatore e gerarchico del “libero” mercato. Se invece guardiamo al flusso dei redditi per il biennio 2007-08, il 20% della popolazione più abbiente si è accaparrata di quasi il 50% del valore aggiunto prodotto, mentre il 20% più povero si è dovuto accontentare di meno del 10% (dati Cies, 2009)

Sul piano della capacità di ripresa, infine, è facile osservare che i settori a maggior valore aggiunto per addetto, cioè quelli produttivi di valore, sono oggi quelli a maggior intensità di conoscenza, all’interno del terziario avanzato. In Italia tali settori sono arrivati a coprire quasi il 30% dell’occupazione e contribuiscono per più di un terzo alla creazione del valore aggiunto. Essi sono del tutto abbandonati a loro stessi. Le strategie padronali, sia private che pubbliche, attuano solo strategie di contenimento dei costi, pochissimi sono gli investimenti in innovazione. L’attività di ricerca e informazione è oramai quasi in estinzione. Manca qualsiasi idea di valorizzazione delle competenze che pure abbondantemente sono presenti. Al loro interno le disparità di condizione di lavoro e di reddito sono molto elevate. E’ l’esito di quello che possiamo definire una “guerra all’intelligenza” (cfr. Manifesto dei lavoratori della conoscenza, / materiale) . Di fatto, in Italia non esiste una capitalismo cognitivo degno di tal nome, così come non esiste un capitalismo manageriale.

Sulla base di queste contestazioni, il 2010 pone due nodi irrisolti nell’agenda dei movimenti sociali. Da un lato, diventa primario impostare una battaglia per una riforma del welfare adeguato alle nuove forme di sfruttamento e scomposizione del lavoro. Parliamo qui di un welfare in grado di garantire due obiettivi precisi: 1. continuità di reddito per tutte/i a prescindere dalla condizione lavorativa, con proposte finalizzate a creare casse sociali per il reddito in tutte le regioni italiani, che vadano oltre l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali: una struttura che oggi non è più riformabile, ma crea solo iniquità e distorsioni redistributive, alimentando concertazione e opportunismo politico. 2. Accesso libero e gratuito ai beni comuni materiali (risorse naturali, acqua, energia, ambiente) e immateriali (conoscenza, formazione, mobilità, casa, socialità). Si tratta in ultima istanza di lanciare una battaglia per il “common fare”.
Dall’altro lato, diventa importante aprire un fronte di conflittualità nei nuovi settori della conoscenza, oggi scomposti e tra loro in competizione, tramite nuove forme di strategie biosindacali in grado di aggredire la condizione esistenziale e generalizzata della precarietà. Ricomporre le diverse condizioni lavorative in un’unica vertenza sociale, territoriale e metropolitana. Sperimentare nuove forme di linguaggio e comunicazione. Ri/cominciare ad intervenire con costanza nelle diverse realtà di crisi. Decostruire l’idea che oggi ha il lavoro creativo e cognitivo nell’immaginario comune, smascherando l’immagine di un successo raggiungibile per tutti ma in realtà solo per pochi eletti e a danno di tutti gli altri. Rilanciare il contro-immaginario dell’eccedenza e dell’autocoscienza, in grado di rompere le gabbie della ricattabilità e della subordinazione mentale.

L’autunno 2009 è stato piuttosto gelido. L’inverno non si presenta molto diverso. Ma la primavera 2010 potrebbe essere calda, se i germogli che piantiamo oggi saranno in grado di maturare.

di Andrea Fumagalli

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