Ricerca, istruzione e formazione agli Stati Generali. Una proposta.

L’anno accademico e scolastico inizia con le forti proteste di insegnanti precari e ricercatori a causa del più grande licenziamento di massa nel settore pubblico che si sia mai visto in Italia.

Con l’attuazione dei micidiali provvedimenti targati Tremonti-Gelmini, scuola pubblica e Università sono ridotte ad un cumulo di rovine, resti residuali di un welfare statale che già da tempo ha abdicato alla sua funzione.

Sull’onda della crisi globale che ieri ha investito gli Stati Uniti e oggi l’Europa, ma soprattutto dopo trent’anni circa di neoliberismo che ha depredato continuativamente risorse, socialità, modi di vita a vantaggio del privato e con profitti che continuano ad essere alti, la gratuità di beni in cui si incarna la vita dignitosa è pressoché scomparsa.

Le forme di conflitto praticate da precari, ricercatori, studenti e nuove figure della cooperazione, dei servizi e della cura, sono all’altezza di questo processo di spoliazione dei beni pubblici in una dimensione, quella statuale, prima prosciugata e poi sottratta all’orizzonte del comune.

Il regime di supersfruttamento quando non direttamente schiavistico come nel caso dei migranti e delle donne, colf e bandanti sia “straniere” che italiane, si estende orami anche all’insieme del lavoro subordinato, minando alla base i diritti fondamentali costituzionali.

Nel merito dei provvedimenti che tagliano e definanziano scuola, ricerca e Università sappiamo come gli effetti della cosiddetta “riforma Gelmini” peseranno anche in futuro, poiché stanno producendo un senso comune perverso, per cui sanità, istruzione, formazione e quanto non attiene direttamente a forme materiali della produzione, non avendo vincoli e delimitazioni, sono destinati a divenire enclosures, recinzioni del sapere e in genere di tutti i servizi che la modernità ha sviluppato nella sfera pubblica.

La logica che muove i famigerati provvedimenti è chiara. Nell’Università, trasformata in fondazione in cui non si sa bene quali privati (o forse si sa) investiranno per profittare secondo i loro interessi, la ricerca è quasi del tutto bandita. La bandiera del merito, che anzitutto legittima la discriminazione tra studenti e Università di serie A e di serie Z (quasi tutte al sud…), agitata anche da politici e intellettuali di centrosinistra, nonché dai principali sindacati, dovrebbe servire a forgiare “eccellenze” in un mercato del lavoro intellettuale sempre più miserabile e  “a scadenza”, come i contratti per i nuovi ricercatori precari, mentre le baronìe continuano a prosperare, inamovibili e inattaccabili.

Ma il definanziamento di scuola e Università, benedetto da Confindustria, avallato dalle Università private in nome della sussidiarietà, abolisce il senso stesso della ricerca, della cooperatività e della socialità, che sono beni comuni prima che pubblici e per natura si sottraggono alla cattura del profitto.

Questa dinamica, ben visibile nella scuola significa: trasformare gli organi collegiali in consigli di amministrazione, con sponsor, concorrenza tra istituti (già attuata con l’”autonomia” voluta da Berlinguer).

Aumentare a dismisura il numero di alunni per classe in maniera proporzionale al licenziamento di insegnanti e personale ATA.

Sminuire sempre più la funzione docente, la progettualità e la relazione pedagogica nelle forme di un controllo occhiuto e ossessivo.

Mantenere bassi gli stipendi del personale (rubricati alla voce spesa invece che a quella di investimenti a lunga scadenza) per disincentivare l’insegnamento e l’assistenza.

Cconsiderare l’handicap e la diversità come una condizione di disagio permanente.

Mmantenere l’edilizia scolastica e le strutture in stato di degrado, così contribuendo alla diminuzione delle iscrizioni a vantaggio delle scuole private; il tutto a fronte di una domanda sempre maggiore di tempo pieno e tempo prolungato da parte di famiglie costrette a tre, quattro lavori precari per arrivare alla terza settimana. Le chiamano infatti “politiche per la famiglia”.

Nell’Università il definanziamento, il taglio di risorse e l’arrogante  giudizio sulla formazione che il decreto Gelmini ha sancito, imponendo una misura di produttività all’attività “immateriale” e ai saperi, conseguente ad una forzata “liceizzazione” dell’insegnamento e delle funzioni, hanno concatenato precarietà e miseria culturale, specchio peraltro di un paese attraversato da una postmodernità a rovescio, in cui l’innovazione è impossibile a causa dei monopoli di fatto e in cui i processi di sottrazione dei beni comuni, reti, energia e acqua  e ambiente, corrispondono all’istituzione di grandi opere, appalti e subappalti il cui sistema criminale è stato scoperchiato proprio in questi mesi.

In questa situazione urge che tutte le forme di precarietà, tutte le figure della ricerca, della formazione e dell’istruzione senza distinzioni e oltrepassando le logiche ormai obsolete di appartenenza, delega e rappresentanza, come tutte le figure del lavoro privato e pubblico, si trovino nello stesso orizzonte di conflitto.

Questa sembra essere davvero l’unica prospettiva possibile per avviare un percorso lungo di inversione e ri-costituzione di un nuovo welfare in cui la difesa dei commons e della dignità della vita sono la stessa cosa.

Questo legame oggi è costituito dal reddito, dalla sua rivendicazione in diverse forme di basic income universale, diretto e indiretto, più che dalla sola difesa del posto di lavoro e di un mercato del lavoro che è già stato oggetto di scambio nella subordinazione ai profitti da capitale e soprattutto dal divenire profitto della rendita.

Per questo la battaglia per il reddito, insieme con altre, può costituire, in dimensione europea, la frontiera in cui si declina l’istanza del comune, cioè della vita dignitosa –  a partire dalla qualità ambientale, dall’eguaglianza nell’accesso ai servizi, la non discriminazione e  la cooperazione che provengono dalla valorizzazione di saperi e conoscenze.

Se un movimento dislocato nei territori ma consapevole della sua estensione europea e globale non si dà una forma costituente, è difficile che possa alimentarsi una qualsiasi alternativa di mondo e di esistenza. Come è accaduto a Copenhaghen, e poi con la crisi greca, con la difesa dell’acqua come bene comune e con le nuove aggregazioni e i nuovi intrecci tra sociale e politico che si vanno profilando, nonché con le forme di lotta che il lavoro subordinato, precario e della potenza immateriale hanno attuato, le buone relazioni tra pratiche e soggettività producono valore e senso, irriducibile alle categore logore della modernità e della sovranità nazionale e innescano dinamiche virtuose in grado di istituire autonomia, autorganizzazione, autoformazione e cooperatività.

Un appuntamento che, dopo le prossime giornate anti ECOFIN e no border camp di Bruxelles (27 sett.- 3 ott.), potrebbe essere una tappa di questo cammino è la due giorni degli Stati Generali della precarietà (9-10 ottobre a Milano), in cui diverse realtà che ormai hanno e fanno esperienza nelle reti di chainworkers e di SanPrecario si incontrano per confrontarsi sulle risposte da dare alla crisi, per la costituzione di diritti all’altezza dei tempi, per la garanzia di reddito e servizi, la creazione di subvertising, flash mob e nuove forme di comunicazione, nonché per continuare il percorso di riflessione su genere, violenza, stereotipi tra maschile e femminile, saperi e conoscenza come beni comuni.

Solo ricomponendo, oltre la tradizione politica e sindacale novecentesca, queste soggettività, facendo movimento e formando reti si può tentare di invertire la tendenza della crisi e volgerla a vantaggio di chi si batte per il comune.


Paolo B. Vernaglione

(Laboratorio filosofico “sofiaroney.org”)

Parole estive (tutti pazzi per la partecipazione agli utili d’impresa)

Agosto è, da sempre, il mese delle parole in libertà nel Belpaese. I giornali sono avidi di spunti da offrire a lettori che non hanno voglia o modo di approfondire, di chiedersi chi, come e perché. E poi ci sono tante tribune nei luoghi di villeggiatura per chi vuole cimentare le proprie arti oratorie. Gli applausi sono garantiti. Il pubblico è in vacanza, cerca diversivi ed è di bocca buona.

TUTTI PAZZI PER LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI DI IMPRESA

Questo agosto è stata di moda la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno parlato in quel di Rimini, tra gli altri, Cesare Geronzi (“vanno sperimentate forme articolate di partecipazione ai risultati aziendali”), Maurizio Sacconi (“Giusto che i lavoratori acquisiscano il diritto a condividere i risultati delle loro fatiche anche in termini di salario collegato ai risultati dell’attività aziendale”) e, infine, Giulio Tremonti (“la politica di combinazione tra capitale e lavoro va sviluppata con una remunerazione calcolata sugli utili delle imprese”).
Belle parole. Ma cosa vorranno dire? Strano che nessun sul palco abbia chiesto chiarimenti agli illustri relatori. Peccato anche perché forse la folla adriatica avrebbe apprezzato moderatori che incalzavano gli ospiti invece di limitarsi a ossequiarli. Non possiamo allora che cercare di carpire il significato di queste parole dai comportamenti di chi le ha pronunciate. Dopotutto, non c’è nulla, proprio nulla, che impedisca loro di metterle in pratica. Nel loro piccolo o grande che sia.
Cesare Geronzi è stato, in sequenza, direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, poi Banca di Roma e Capitalia, presidente di Mediobanca e di Assicurazioni Generali. Queste aziende hanno conseguito profitti ingenti durante la sua reggenza. Ma non ci risulta che Geronzi abbia reso i suoi dipendenti “partecipi dei risultati aziendali”. Forse intendeva rendere partecipi gli stakeholders, le famiglie che avevano messo i loro risparmi in queste banche. In effetti, la Banca di Roma ha indotto molte di loro a comprare azioni e obbligazioni Cirio e Parmalat, partecipando attivamente al crac di queste società. Una partecipazione utile, ma per qualcun altro.
Giulio Tremonti è stato ministro dell’Economa (per otto degli ultimi dieci anni e in tre degli ultimi quattro governi) e Maurizio Sacconi ministro del Lavoro (da due anni, prima per cinque anni è stato sottosegretario). Da molto tempo hanno annunciato una legge sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. L’ultima volta in cui avevano dichiarato che sarebbe stata “legge entro l’anno” era esattamente un anno fa. Da allora non se ne è saputo più nulla. C’era anche un testo bi-partisan elaborato dalla commissione Lavoro del Senato di cui si è perso traccia. I contribuenti italiani (tra cui soprattutto ci sono lavoratori dipendenti) hanno comunque nel frattempo partecipato alle perdite di Alitalia, accollandosi circa 3 miliardi di debiti della “bad company”.
Non che sia andata meglio ai dipendenti degli studi professionali. Forse qualcuno si era illuso leggendo del divieto per gli avvocati di costituirsi in società di capitali, una misura che verrà presto estesa a tutti gli ordini professionali, secondo il Guardasigilli Alfano. Forse, avrà pensato, serve affinché gli studi spartiscano gli utili coi loro dipendenti, anziché con gli azionisti. Purtroppo, bene che ne sia consapevole, serve solo a escludere la concorrenza, quei dipendenti che aspirano, prima o poi, a metter su il loro studio professionale. Avranno, purtroppo, vita ancora più dura: ritorno alle tariffe minime inderogabili, divieto di pubblicità, esami di ingresso ancora più difficili. Invece della partecipazione agli utili si sta promuovendo la cooptazione negli ordini da parte di chi un posto al sole, ce l’ha già.  
Al posto delle promesse liberalizzazioni ci sono quindi solo le parole in libertà. Ne faremmo volentieri a meno. E francamente faremmo a meno anche di una legge sempre promessa e mai realizzata sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. Il motivo è che non c’è nessun legittimo impedimento a rendere i propri dipendenti partecipi dei profitti aziendali in Italia, anziché limitarsi a farli partecipare, spesso inconsapevolmente, ai fallimenti societari. Ma una cosa invece sì, ci sentiamo di chiederla a chi continua a prendere in giro milioni di lavoratori. Riducete il carico fiscale che grava sul lavoro, riequilibrando il gettito, in modo tale da spostarlo dal lavoro alle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, rivelandosi utile nel far aumentare la ricchezza di tutti.

Titto Boeri (lavoce.info)

Federmeccanica: disdetto contratto 2008

Repubblica.it – 7 settembre 2010

MILANO – Il direttivo di Federmeccanica ha dato mandato al presidente Pierluigi Ceccardi di comunicare fin d’ora il recesso dal contratto nazionale siglato il 20 gennaio 2008 e valido fino al 2012. Lo stesso Ceccardi ha spiegato che la decisione di considerare già spirato il contratto è avvenuta “a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom relative all’applicazione di tale accordo” ed è comunicata “in via meramente tecnica e cautelativa allo scopo di garantire la migliore tutela delle aziende”. La disdetta avviene a far data dal primo gennaio 2012. Per Landini, segretario generale della Fiom, è una “decisione politica grave, irresponsabile e illegittima”.

L’invito Fiom: “Non si ceda a diktat Fiat”. Proprio la Fiom, attraverso il segretario generale Maurizio Landini, aveva invitato nelle ultime ore Federmeccanica a non accettare quello che viene visto come un “diktat” di Fiat, perché “meccanismi di confronto sotto diktat alla lunga non aiutano neanche le imprese”. In sostanza, la Fiom aveva invitato gli industriali della meccanica a non cedere alle pressioni di Marchionne, che senza deroghe al contratto del 2008 aveva paventato l’uscita di Fiat da Federmeccanica. “I problemi che la crisi pone si possono affrontare anche discutendo di investimenti e di maggiore utilizzo degli impianti. Senza bisogno di deroghe ma applicando il contratto nazionale e le regole che ci sono” aveva concluso Landini.

“Nessun



diktat, tutelare aziende”. “Fiat non ha spinto per niente – è la replica di Ceccardi -, l’accelerazione che abbiamo imposto oggi è per tutelare le esigenze delle aziende metalmeccaniche e di un milione di lavoratori che dipendono da esse”.

“Relazioni industriali da adeguare”. Il presidente di Federmeccanica ha poi spiegato che “il consiglio direttivo ha preso in esame l’evoluzione dei rapporti sindacali nel settore dopo il rinnovo del contratto nazionale del 15 ottobre 2009 e la vicenda relativa allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco”. “Il convincimento unanime è la necessità di proseguire con determinazione nell’adeguamento delle relazioni industriali, sindacali e contrattuali alla domanda di maggior affidabilità e flessibilità che proviene dalle imprese per consentire loro una migliore tenuta rispetto all’urto della competizione globale”.

“Cgil partecipi a cambio delle regole”. “E’  urgente – prosegue Ceccardi – una regolamentazione condivisa del sistema di rappresentanza, sulla cui necessità esiste generale consenso e disponibilità dichiarata dalle parti”. Tale regolamentazione, ricorda il presidente di federmeccanica, è prevista dall’accordo interconfederale del 15 aprile 2009, non sottoscritto dalla Cgil. Alla domanda se l’auspicio è che anche l’organizzazione guidata da Guglielmo Epifani possa sedersi al tavolo, Ceccardi ha replicato: “Assolutamente sì, l’auspicio è che le confederazioni attivino al più presto un tavolo per regolamentare la materia per via pattizia”.

Landini: “Strappo alla democrazia”. Appresa la decisione di Federmeccanica, Maurizio Landini esprime un giudizio durissimo: “E’ una decisione politica grave, irresponsabile e illegittima. Il contratto del 2008 è in vigore fino alla fine del 2011 e ha una sua ultrattività qualora venga presentata una piattaforma per il suo rinnovo”. Si tratta secondo il leader della Fiom di “uno strappo alle regole democratiche grave perché si impedisce ai lavoratori di decidere sul loro contratto e si sceglie di trattare con i sindacati che non hanno alcun mandato in questa direzione e in ogni caso rappresentano la minoranza dei dipendenti metalmeccanici”.

Fiom: “Noi non ci saremo”. Quanto all’incontro del 15 settembre, in cui Federmeccanica e sindacati si confronteranno sulle possibili deroghe al contratto nazionale dei metalmeccanici, Landini spiega che “la Fiom non parteciperà a tavoli che cancellano il contratto nazionale. Non partecipiamo perché non sono trattative ma semplicemente dettature della Fiat”.

“Importante manifestazione del 16 ottobre”. Domani, al comitato centrale della Fiom “decideremo  tutte le iniziative necessarie- conclude Landini -. E più importante ancora è la manifestazione del 16 ottobre per la difesa dei diritti del contratto e della democrazia del nostro Paese”.

A bruxelles per un’opposizione sociale europea

Il Manifesto – 5 settembre 2010

Sono parecchi i motivi per cui vale la pena venire l’ultima settimana di settembre a protestare a Bruxelles contro l’eurocrazia. Uno è il campo noborder che organizza nella capitale dell’Ue una settimana di workshop e azioni in difesa del diritto dei migranti a varcare i confini e per cercare di arrestare l’ondata di xenofobia europea che dall’Italia e dalla Francia manda un pessimo segnale ai nuovi stati membri. Il campeggio (http://noborder.bxl.eu) ha per immagine il poster dell’artista/subvertiser Titom che ritrae uno sbarazzino burattino che taglia con le cesoie il filo spinato di uno dei tanti campi di detenzione per sans papiers di cui è punteggiata l’Europa. La settimana noborder termina il 2 ottobre con una manifestazione contro la persecuzione dei migranti che cercherà di attraversare il Quartiere Europeo insieme a tutte le comunità immigrate di Bruxelles.
Un altro motivo è la protesta contro l’austerità che Merkel e Barroso, dopo la Grecia, stanno imponendo a tutta l’Europa. Il 29 settembre ci sarà una grande manifestazione dei sindacati europei e lo sciopero generale in paesi come la Spagna contro le misure deflazioniste dei governi europei. La disoccupazione, in particolare giovanile, è già a livelli record e non potrà che dilagare. Peggio: l’austerity precipiterà il continente in deflazione, riducendo la domanda alle imprese e il gettito fiscale.
Come rete euromayday, sotto la sigla Precarious United (http://precarious-united.eu) abbiamo contribuito a organizzare la giornata d’azione del 29 settembre contro la Commissione e l’Ecofin, il vertice dei ministri finanziari europei che si ritroverà per decidere l’aggiustamento strutturale per colmare i deficit causati dal salvataggio delle grandi banche. I soldi che avremmo potuto spendere in forme di reddito e basic income per precari e disoccupati, educazione universitaria, economia ecosostenibile, li hanno dati ai banchieri, quelli che con la loro irrazionalità e avidità ci hanno precipitato in depressione. Per fermare la deflazione, dobbiamo batterci per un’Europa ecosociale che dia strumenti di garanzia alla società e rifaccia partire l’economia con la greenomics. Insomma rossi, verdi, black e pink dopo Copenhagen sono chiamati a raccolta a Bruxelles per difendere il diritto della generazione precaria e immigrata a esistere e progettare il futuro, nello spazio non più verticale dei media e nell’ambiente reso minaccioso dalla crisi climatica.
Il movimento noglobal ha commesso il grave errore di non aver compreso che l’Europa era il terreno di scontro cruciale per la lotta contro il neoliberismo e di aver guardato all’Ue esclusivamente come a un dispositivo capitalista o di sicurezza. Ma l’Europa non è solo uno spazio economico o strategico, è uno spazio politico, culturale, artistico e sociale vissuto quotidianamente. È uno spazio di diritti. La nuova Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue contiene diritti civili, sociali, di genere, d’informazione che dobbiamo far valere. Per questo, la Carta necessita di movimenti sociali che se ne facciano interpreti, che la assumano come documento per azioni creatrici di nuova civiltà giuridica, per l’autodeterminazione degli individui e delle collettività. Non è un caso che l’Ue non abbia ratificato la persecuzione dei rom portata avanti prima da Berlusconi e oggi da Sarkozy. L’Europa è il miglior antidoto contro lo stato-nazione nel cui nome tante nefandezze furono e sono compiute. Dobbiamo saper costituire un movimento di opposizione sociale pienamente europeo, capace di dialogare con le forze ecosocialiste presenti a Strasburgo, capace di creare conflitto in tutte le grandi città del continente, a partire da due rivendicazioni chiave: reddito di base per tutti i precari, ius soli per tutti i migranti. Solo restituendo dignità all’esistenza dei singoli, solo dando la cittadinanza a chi è nato o vive qui è possibile rilanciare la scommessa europea per le nuove generazioni, fuori dai parametri di bilancio e dalle ossessioni securitarie, per immaginare nuove forme di autonomia, libertà, solidarietà e condivisione. Dobbiamo costruire un’efficace democrazia p2p, infrastrutture biosolidali, forme di solidarietà transetniche, un concreto orizzonte postcapitalista. Dobbiamo fare il sindacato del precariato e inventare forme di autotutela insieme ai milioni di atipici, lavoratori autonomi e freelancers che sono il centro vitale dell’intelligenza sociale di questo continente, altrimenti condannato a divenire globalmente irrilevante e stantio come la sua attuale classe dirigente.
Degli esiti possibili di un decennio di agitazione precaria in Europa si discuterà a Milano il 9-10 ottobre, agli Stati Generali della Precarietà (www.precaria.org), organizzati dalla rete mayday milanese sotto gli auspici di San Precario, che attirerà gli attivisti di ritorno da Bruxelles. Parte l’autunno caldo europeo per riprenderci quello che ci spetta: dignità, giustizia sociale, libertà, autonomia, contro chi ci vorrebbe per sempre impauriti, subordinati, depressi e chiusi nelle fortezze delle nostre solitudini.

di Giuseppe Allegri e Alex Foti

Carrefour, la protesta degli ex magazzinieri fanno la spesa e non vogliono pagare il conto

Repubblica.it – 31 agosto 2010

Con il carrello pieno di pasta, acqua e pannolini si sono avvicinati alle casse. «Fateci passare, dobbiamo dare da mangiare ai nostri figli». È la nuova protesta dei lavoratori del magazzino del Gs-Carrefour di Pieve Emanuele, che si sono presentati al supermarcato Carrefour di Assago, alle porte di Milano, per protestare contro il mancato pagamento degli arretrati. Un nuovo capitolo, insomma, per quella che i sindacati hanno definito “la Melfi del Nord”.

Avvicinato il direttore del supermercato, funzionari e delegati hanno trattato per avere un anticipo sotto forma di beni di prima necessita. Poi – dopo circa una mezz’ora all’interno – hanno lasciato i carrelli davanti alle casse e sono usciti dal supermercato consegnando volantini.

Da tre mesi i 60 magazzinieri di Pieve hanno la busta paga a zero ore e non vengono fatti rientrare a lavoro. Questo nonostante due sentenze del tribunale del lavoro che danno ragione ai lavoratori. Ieri un incontro in prefettura tra sindacati, Carrefour e consorzio Gemal – che gestisce l’appalto – si è risolto con un nulla di fatto. «La nostra proposta è di reintegrare tutti i lavoratori – ha detto Ettore Montagna (Filt-Cgil) – perché prima di tutto bisogna rispettare le sentenze. Poi si potrà discutere di cassa integrazione». E’ previsto anche l’invio di una lettera all’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi.

“In merito alla vertenza in atto nel deposito di Pieve Emanuele, Carrefour specifica ancora una volta che i 64 lavoratori coinvolti non sono, né sono mai stati, dipendenti della società”, fanno sapere dal gruppo francese della grande distribuzione. “Sono dunque improprie le esortazioni al rispetto della legge e delle istituzioni rivolte a Carrefour, che auspica una risoluzione in tempi brevissimi della vertenza in atto nel deposito di Pieve Emanuele tra la cooperativa Rm e i suoi lavoratori e si ponga fine a ogni comportamento contrario alla legalità”.