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										La Repubblica – 22 agosto 2010 
Dinanzi al peggioramento generale delle condizioni di lavoro provocato  dalla crisi, veniva da chiedersi come mai il conflitto di classe non  mostrasse segni di ripresa.  
La spiegazione che si soleva dare era che mancava un soggetto capace  di trasformare il malcontento dei lavoratori in appropriate iniziative,  diffuse e unitarie, sul fronte politico e sindacale. Da ieri sappiamo  che quel soggetto esiste e si dà da fare. Non è una nuova formazione  politica: è la Fiat. L´invito a starsene a casa, seppur pagati,  trasmesso ai tre lavoratori di Melfi nonostante un giudice ne abbia  ordinato il reintegro dopo il licenziamento in tronco con l´accusa di  sabotare la produzione, nelle intenzioni dell´azienda voleva essere  evidentemente una prova di forza. In gioco ci sono i futuri sviluppi del  piano “fabbrica Italia” a Pomigliano e a Mirafiori, non meno che a  Melfi. Si tratta invece di una prova di debolezza e di un grave errore.   
E´ una prova di debolezza perché una volta presentato il ricorso  contro l´ordinanza del giudice, sorretto da una poderosa documentazione,  un´azienda che si sentisse forte delle proprie ragioni avrebbe potuto  aspettare tranquillamente l´esame in tribunale, invece di accanirsi  ancora sugli interessati. Il bisogno di dare subito un´altra lezione  all´insieme dei dipendenti, tradisce una disposizione a prendere  decisioni precipitose che fa pensare ad un´azienda che non si sta  affatto muovendo su un terreno solido. Da parte dell´azienda è anche un  errore destinato a diffondere a macchia d´olio le preoccupazioni per il  futuro che il piano Fiat pare chiaramente anticipare. Abbandono del  contratto nazionale, intensificazione massima delle prestazioni,  sindacati nell´angolo, e fuori dalla fabbrica il primo che apre bocca o  muove un dito. Piaccia o non piaccia ai giudici del lavoro. Finora i  lavoratori hanno sopportato. Senza l´aiuto dei sindacati, bisogna dire,  tranne la Fiom. Quando hanno potuto esprimersi liberamente, come nel  referendum di Pomigliano, un terzo di loro ha fatto sapere che quel  futuro non è accettabile. Grazie ad iniziative tipo lo schiaffo ai  reintegrati, quel terzo di dissidenti potrebbe anche diventare la metà o  magari i tre quarti. E ovviamente non soltanto negli stabilimenti Fiat.  
Il ritorno ad un conflitto di classe che si esprima con gli  strumenti della democrazia e però mandi in soffitta l´idea reazionaria  che per avere e mantenere un lavoro bisogna sottostare a qualsiasi  condizione un´azienda si sogna di imporre perché il mondo è cambiato, la  globalizzazione lo esige, la competitività ce lo impone ecc., tutto  sommato sarebbe una novità interessante nel deserto della politica  italiana. Sarebbe paradossale se un efficace contributo al suo ritorno  venisse proprio dall´azienda, la Fiat, che negli ultimi mesi ha fatto di  tutto per presentarlo come un residuo arcaico della rivoluzione  industriale. 
Luciano Gallino 
 								 	
						
		
								
										Il Manifesto – 15 agosto 2010 
Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economist naturalmente. 
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e per fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città. 
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficile capire perché si debba salvare un’industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?). 
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitano coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui si distingue Marchionne. 
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva. 
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita per indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dallasuper-produzione dell’inutile. 
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche. 
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare. 
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo. 
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto. 
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute. 
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa. 
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione 
nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile. 
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente? 
Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea. 
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione. 
di Franco Berardi “Bifo” 
Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o l  distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scender l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salaria nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono lr attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessun, crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economisg naturalmente. 
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedona allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamate adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato d  aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e pea fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelati inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzion, nelle grandi città. 
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mond  presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficila capire perché si debba salvare un’industria che produce oggettn ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuol  comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in gire per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che coste (ma a chi costa?). 
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante president  Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insiemg hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signoe Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che ln stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impres, che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, an sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso delln Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita d, Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a questi condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitan  coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzioni dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosn l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovana lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui sr distingue Marchionne. 
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamente dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione european presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti i superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva. 
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella culturo europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questz situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita pe  indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalln super-produzione dell’inutile. 
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose une riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e a, dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolioa oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi ch  hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa dr differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contrn il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usatg per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso ia profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentanda l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatte della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserve che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definirn neo-schiavistiche. 
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagnt in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dicn che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progress, sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora er da dimenticare. 
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dicp Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo. 
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, r addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come sn la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece de crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punta Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie allr forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinate al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresse è morto. 
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso socialt culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quandn i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale a, costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovativen per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano temp  libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute. 
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace dn curare se stessa. 
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo dee lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale r investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare ug operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o ua servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzioni tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigent, europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressiong nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca peg nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana delln società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni ra destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino str nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstiziona economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il future della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologicn del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile. 
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modell  si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichichei culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendentea Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea. 
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso d, Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farst immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire an piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.r di Franco Berardi “Bifoy 
 								 	
						
		
								
										Il Manifesto – 21 luglio 2010 
Roberto Ciccarelli 
«Il disegno di legge Gelmini sull’università è inemendabile. Va solo  ritirato. Questo dovrebbero dire domani le opposizioni in Senato –  afferma Domenico Pantaleo, segretario della Federazione dei lavoratori  della conoscenza (Flc) della Cgil – Bisogna proporre un modello  radicalmente alternativo contro il progetto del governo che mette in  competizione gli atenei, ridimensiona il ruolo dei Senati accademici,  accentra il potere nelle mani dei rettori, cancella la ricerca  dall’università, oltre che il diritto allo studio». 
È una critica al Pd che ha comunque promesso di dare battaglia in  Senato? 
 Non voglio insegnare nulla alla politica, né la politica ha qualcosa da  insegnare al sindacato. Che il Ddl sia inemendabile lo dicono i  ricercatori che si asterranno dalla didattica non obbligatoria il  prossimo anno accademico, gli studenti, la parte più avveduta dei  docenti e molti organi accademici che si sono espressi in questo senso.  
 I sostenitori della riforma Gelmini sostengono che sono tutte persone  che difendono lo status quo dell’università… 
 Dobbiamo intenderci su cosa significa «status quo». Per me è quello che  vuole fare un governo che non ha alcuna intenzione di sbarrare la strada  alle baronie e anzi impone il blocco del turn-over contro i giovani  ricercatori e rende inutile il proposito della Gelmini di abbassare  l’età pensionabile dei docenti a 65 anni. Sono d’accordo con la  battaglia contro gli sprechi nella scuola e nell’università, ma per  essere davvero efficace bisogna eliminare il sistema clientelare e  reinvestire tutti i risparmi nella didattica e nella ricerca, nei  programmi e nel diritto allo studio. 
È possibile che il governo accetti di rifinanziare l’università dopo  l’approvazione della riforma? 
 È così, ma questo paradigma dev’essere ribaltato. Approvare il Ddl non  significa che verranno ritirati i tagli al fondo ordinario di  finanziamento degli atenei che nel 2011 sarà di un altro 17 per cento. I  tagli che Tremonti ha imposto alla Gelmini produrranno la deflagrazione  del sistema. Il prossimo anno 37 atenei non riusciranno a chiudere il  bilancio.  
L’opposizione alla riforma cresce ma è ancora frammentata. La Crui ha  una posizione debole in attesa di segnali dal governo. Non c’è il  rischio che in autunno la mobilitazione resti isolata? 
 È un rischio evidente. Il nostro problema non è solo quello di costruire  un movimento in autunno, ma di evitare la sua corporativizzazione. Per  questo abbiamo bisogno di una seria interlocuzione con la politica che è  mancata due anni fa durante il movimento dell’Onda. L’autonomia dei  movimenti è importante, ma non basta se non coinvolge la società. 
Cosa proponete di fare quando il Ddl arriverà alla Camera e incrocerà la  nuova finanziaria? 
 Non possiamo più giocare di rimessa, dobbiamo proporre un’alternativa  radicale. Per farlo c’è bisogno di unificare le lotte dei ricercatori  con quelle degli studenti, degli enti di ricerca, dei precari e dei  genitori nella scuola in un percorso collettivo.  
 Stiamo lavorando per convocare gli stati generali della conoscenza a  Roma per fine ottobre. Il nostro obiettivo è creare un’alleanza sociale  in cui il sindacato sia una parte importante, ma solo una parte.  
Questa agenda l’avete proposta l’anno scorso quando avete convocato  un’assemblea con i ricercatori precari alla Sapienza, ma non sembra  avere avuto molto seguito nella Cgil… 
 Se non sostiene un altro modello di welfare, di sviluppo e di lavoro, il  sindacato rischia di condannarsi all’inifluenza. Non abbiamo  alternative.  
 Nella società esiste un largo consenso sul fatto che i saperi e la  conoscenza siano l’unico strumento per uscire dalla crisi. In più  costituiscono un fattore per sradicare l’antropologia del berlusconismo.  La lotta contro la precarietà, per il reddito, per un nuovo welfare e i  beni comuni sono il fondamento di un nuovo progetto sociale. 
La grande maggioranza dei lavoratori della conoscenza sono  intermittenti, lavorano a progetto o in autonomia, pochi saranno  stabilizzati, gli altri no. Per difendere queste persone non c’è bisogno  di un salto culturale anche da parte del sindacato? 
Dobbiamo  impegnarci su entrambi i fronti. Al lavoro cognitivo però devono essere  riconosciute le garanzie contro tutte le forme di precarietà, ma anche  la dignità sociale. Per farlo è necessario creare un sistema del welfare  universale e non solo lavoristico che garantisca a tutti un sostegno  indipendentemente dal lavoro svolto, ma che serva ugualmente ad  accompagnare verso un lavoro. Solo così questo paese riuscirà a dare una  risposta alla disperazione esistenziale delle nuove generazioni. 
 								 	
						
		
								
										
sbilanciamoci.info – 6 luglio 2010 
Il caso Pomigliano insegna che vanno  riequilibrati i rapporti di forza a vantaggio del lavoro. Usando anche  il fisco e il reddito di cittadinanza 
 
Una delle clausole del cosidetto “accordo” di  Pomigliano prevede che i lavoratori lavorino dieci minuti in più al  giorno. A parità di produzione circa 100 lavoratori perderanno il posto a  causa di ciò. Il costo di 100 lavoratori è circa tre milioni di euro  all’anno, cioè meno di un terzo di quanto hanno ricevuto nel 2009  Marchionne e Montezemolo messi insieme. Se Montezemolo si  accontentasse di 10.000 euro al giorno, e Marchionne di 9100, si  potrebbe dare lavoro a 100 operai in più. Mi pare che coloro che  sostengono che i lavoratori sono vittime dell’ideologia, mentre il management attua buone scelte economiche, non abbiano le idee chiare su cosa  sono l’ideologia e l’economia. 
Esiste in effetti una forte  ideologia padronale, che si caratterizza in primo luogo per una  preoccupante indifferenza non solo per la redistribuzione, ma anche per  la semplice distribuzione del reddito. Questa indifferenza è molto  pericolosa. L’attuale classe padronale non ha alcuno scrupolo, e può  portare l’Italia alla rovina. Se gli italiani accetteranno di  lavorare in condizioni da terzo mondo, buon per loro; e se no peggio per  loro. 
Questi padroni irresponsabili sono oggi la parte forte sul  mercato del lavoro. Possono davvero attuare lo “sciopero degli  investimenti” e portare la produzione all’estero; e in effetti lo stanno  già facendo, e continueranno a farlo quale che sia il livello di resa  (nei due sensi) cui arriveranno i lavoratori. Ci sono anche altri  fattori che si sommano a questo e ne rafforzano i risultati. La maggior  parte della produzione odierna, per sua natura, non consente l’accumulo  di scorte; il mutamento tecnologico è molto rapido, e ostacola  oggettivamente la stipula di contratti di lavoro di lunga durata;  l’incertezza sull’andamento della domanda e il cambiamento tecnologico  aumentano il rischio per i padroni, sopratutto per i più piccoli: “ci  manca solo che gli operai vogliano più soldi, quando è già difficile non  chiudere”. In queste condizioni le lotte sul luogo di lavoro sono  assolutamente necessarie, ma ben difficilmente potranno essere vincenti. 
D’altra parte, soluzioni socialdemocratiche avanzate  (nazionalizzazioni, uso delle imprese pubbliche, controllo sociale sulle  condizioni di lavoro) non sono proponibili. O meglio lo sono nel lungo  periodo, e richiedono trasformazioni molto profonde a tutti i livelli,  non solo nel campo dell’istruzione, della politica industriale e della  fornitura di beni pubblici, ma anche della rappresentanza politica e  della formazione della classe politica. E’ necessario battersi fin d’ora  per tutto ciò, ma bisogna fare qualcosa intanto, non solo per la  necessità di arginare la povertà e lo sfruttamento, ma anche per  evitare (se siamo ancora in tempo) che l’irresponsabile strapotere dei  padroni e dei politici attuali portino la povertà, la miseria culturale e  l’anomia a livelli tali da rendere impossibili riforme che richiedono  invece cultura, impegno e partecipazione. Il problema per la sinistra è  insomma quello di avanzare proposte che siano valide e realistiche date queste condizioni, cioè in una situazione in cui un  miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (e a  fortiori dei disoccupati) non può essere ottenuto attraverso  miglioramenti del rapporto di lavoro. Si deve cambiare terreno di  lotta. Più in dettaglio, ciò significa che le proposte che si devono  fare devono essere immuni dal ricatto padronale “o così o ti licenzio”. 
Qui  di seguito suggerisco un “pacchetto” in tre punti che mi pare abbia  queste caratteristiche. 
a) Lotta finale all’evasione fiscale  dell’Irpef. Per “finale” intendo dire che esistono i mezzi tecnici per  ridurla a dimensioni assai poco rilevanti. Ci sono parecchi validi  motivi per intervenire sopratutto sull’Irpef. Sull’Irpef ci sono meno  complicità che sull’Iva: gli operai della piccola – o grande – ditta che  evade l’Iva sono ostili all’accertamento Iva assai più che a quello  Irpef del loro padrone. L’accertamento Irpef, se lo si vuole fare, è  assai più semplice e rapido (si tratta di imporre pagamenti elettronici  e di incrociare i dati degli acquisti, dei movimenti bancari e delle  dichiarazioni dei redditi) e meno esposto a contenzioso. La sanzione  Irpef può includere anche quella Iva (gli importi sottratti all’Iva alla  fine diventano redditi di qualcuno). Gli effetti dannosi di aumento  dell’inflazione e riduzione della produzione sono molto minori per  l’Irpef che per l’Iva. Infine, l’evasione Irpef è assai più consistente  di quella Iva. Il che ovviamente non implica che non si debba ridurre  drasticamente anche l’evasione Iva (e dei contributi  previdenziali). 
b) Al di là dei proventi derivanti dalla riduzione  dell’evasione, bisogna rivendicare una decisa redistribuzione del  reddito da operarsi con strumenti fiscali. Una tassazione dei redditi  alti e dei patrimoni altissimi potrebbe agevolmente portare a entrate  aggiuntive dell’ordine almeno dell’1 o 2% del Pil, cioè 15-30  miliardi di euro, da usare a fini sociali. Si tratta di somme  assolutamente sopportabili (in effetti è sensato pensare anche a cifre  più alte), e ampiamente inferiori, come percentuale sul Pil, al  trasferimento in senso opposto che si è avuto negli ultimi decenni. 
c)  Infine e sopratutto, bisogna introdurre il salario di cittadinanza. Non  si tratta solo di porre rimedio alle condizioni di povertà e di  unificare una rete di sussidi che si presta a troppa discrezionalità. Si  tratta anche dell’unico modo per potere mantenere condizioni di vita  dignitose per i lavoratori (e perché no, migliorarle) senza dare ai  padroni possibilità di ricatto. Un padrone che sposta lo stabilimento in  Romania perché lì il lavoro non dà problemi difficilmente trasferirebbe  la residenza perché le sue tasse sul reddito sono aumentate, per di più  di poco. In effetti un salario di cittadinanza accettabile  potrebbe essere interamente finanziato con i proventi dei punti a) e b).  Come ha dimostrato in modo convincente Ugo Colombino (si veda il suo intervento su “La Voce”, e la letteratura  scientifica ivi citata), un sussidio di 400 euro mensili medio per  famiglia richiede un aumento delle aliquote irpef di 1-2 punti  percentuali, purché la base imponibile sia sostanzialmente esente da  evasione. Questa cifra è troppo bassa, ma consente di stimare, sia  pure in modo un po’ approssimativo, che un aumento medio del 10%  dell’Irpef consentirebbe ampiamente di pagare un salario di cittadinanza  sufficiente, sopratutto se si considera che si potrebbe intervenire  anche con altri strumenti. Si dovrebbe spostare l’1.5% circa del  prodotto interno lordo: per fare un confronto, il “liberista” governo  inglese ha appena adottato una manovra che sposta (perlopiù in direzione  opposta a quella qui auspicata, a quanto è dato sapere) circa il 4% del  Pil. 
Naturalmente il provvedimento dovrebbe essere accompagnato  da alcune norme di contorno (riduzione di pari importo della  retribuzione dei non-poveri, trattamento delle persone a carico, ecc.;).  Sopratutto, occorrono norme che impediscano ai padroni di diminuire il  costo del lavoro di un importo pari al salario di cittadinanza. Si  dovrebbe cioè imporre anche un salario minimo. Ma questo potrebbe  essere bene accetto dai padroni per quanto riguarda i costi aziendali:  se il costo di una data unità di lavoro è, poniamo 2.000 euro, il  salario di cittadinanza è di 500, e il costo minimo del lavoro viene  fissato a 1.600, le condizioni del lavoratore migliorano, ma il costo  del lavoro si riduce del 20%. 
Mentre i punti a) e b) sono  piuttosto ovvi, il punto c) richiede un minimo di argomentazioni in più.  Ci sono quattro ottime ragioni, due economiche e due politiche, che in  aggiunta a quanto già scritto suffragano la validità della proposta. In  primo luogo, risulta da numerose ricerche empiriche che la certezza di  un reddito minimo propizia una maggiore partecipazione, una maggiore  assunzione di rischi, un maggiore investimento in formazione e una  minore anomia, e che questi effetti prevalgono o sono perlomeno  equivalenti a quelli di segno opposto della “trappola del sussidio” –  non lavorare perché ci si accontenta del sussidio. In secondo luogo,  come abbiamo visto, il salario di cittadinanza consentirebbe riduzioni  assai significative del costo del lavoro, con effetti positivi sulla  competitività. Terzo, la proposta del reddito di cittadinanza ridarebbe  ai lavoratori il “moral high standing”, di cui sono stati privati agli  occhi di buona parte dell’opinione pubblica sulla base dell’accusa di  sabotare la competitività. “Se si vuole aumentare la competitività, noi  abbiamo fatto la nostra parte: fra i grandi paesi europei abbiamo i  salari più bassi e gli orari di lavoro più lunghi. Adesso è sufficiente  che voi padroni facciate la vostra pagando un po’ di più di tasse sul  reddito (e sulla ricchezza)”. Infine, e forse più importante, sul  salario di cittadinanza si può creare una vasta alleanza. Non sono solo i  lavoratori poveri e i disoccupati a essere interessati, ma anche i  giovani senza lavoro e i loro genitori e gli anziani che rischiano di  perdere il posto. Se la richiesta del salario di cittadinanza non viene  avanzata è a causa della diffusa convinzione (che abbiamo visto essere  sbagliata) che i soldi non ci sono; ma sopratutto a causa del pudore del  centro sinistra in tema di tassazione dei redditi elevati, che sembra  però attenuarsi, sotto i colpi della realtà. Non ci sono valide ragioni  materiali perché la maggioranza del popolo italiano debba essere  contraria. 
In conclusione: se si vuole impedire che gran parte  dei lavoratori e dei disoccupati italiani arrivino a condizioni di  impoverimento insostenibili, si deve separare una parte del reddito  dalla prestazione lavorativa. In questo intervento ho cercato di  argomentare che ciò è possibile. 
 
 								 	
						
		
								
										Governo e partiti, economisti e giornali si lanciano all’attacco dell’articolo 41 della Costituzione, quello che traccia le linee guida dell’economia italiana. Nelle stesse ore gli operai campani della Fiat di Pomigliano d’Arco vivono ore drammatiche: se non accettano le dure condizioni imposte dall’azienda e sottoscritte da Cisl e Uil, l’azienda è pronta a chiudere la fabbrica, trasferire la produzione all’estero. Prosegui la lettura » 
 								 	
						
	
					
    
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