Una notte di lavoro con le centinaia di immigrati disposti a tutto per
pochi spiccioli. Per farsi sfruttare c’è anche chi si accoltella davanti ai
"caporali"
da repubblica.it del 17 novembre 2008
di PAOLO BERIZZI
MILANO –
Prima cosa: scavalcare. "Lì in mezzo, tra la porta numero 3 e la 4, vai
tranquillo", mi suggerisce Driss, un ragazzo marocchino, sorriso sghembo e
infreddolito. Se vuoi lavorare come schiavo delle cassette, all’Ortomercato di
Milano, devi arrampicarti su questa barriera di ferro – saranno tre metri e
mezzo d’altezza – che gira sui quattro lati e che ora traballa per i movimenti
accelerati e scomposti di chi sale sopra e salta dall’altra parte. Le quattro di
notte. Sono dentro. "Vai al piazzale 60, o al 61, o al 62, o al 63, che c’è
lavoro". Calpesti uno dei 450 mila metri quadrati del mercato e ti sbatte
addosso la sensazione di essere in un posto dove non sei nient’altro che
braccia, ma dove un misero lavoro nero – questo sì – puoi cercarlo in libertà.
Senza nessuno che ti punta, che ti intralcia.
Confuso nella suburra dei
bancali, file interminabili di pile di scatole di legno e di plastica; odori
forti di ortaggi, il freddo che li stampa nelle narici; i fumi dei Tir, 300 ogni
notte; i camioncini degli ambulanti che aspettano il carico (il nome del
proprietario è scritto sulla ribalta con la vernice spray); i caporali che
smistano il traffico umano.
La spianata di cemento di via Lombroso è il
regno del racket delle braccia e delle cassette. Si lavora come servi. Sembra di
stare nell’800 sudamericano, o nelle campagne meridionali degli anni Cinquanta.
Invece è Milano, la capitale economica d’Italia. Mille chilometri dal cottimismo
dei pomodorini di Foggia, di Castel Volturno, di Pomigliano d’Arco.
L’Ortomercato – 1 milione di tonnellate di merce venduta ogni anno (il 30% va
all’estero) – è gestito da una società del Comune (Sogemi). Qui dentro si carica
e si scarica frutta e verdura per sei o anche dieci ore di fila: dall’una di
notte alle undici del mattino. Si guadagnano 15-20 euro. Sfruttamento schifoso,
tanto al chilo. Ti pago il caffè, dicono gli ambulanti e i grossisti che si
presentano in furgone o in Suv ai ragazzi egiziani, marocchini, tunisini,
rumeni, albanesi, indiani, filippini, a questo esercito di disperati – qualche
centinaio, italiani quasi zero – che ogni notte arriva per tirare su un po’ di
spiccioli. Molti si rivolgono agli intermediari, i "cacciatori di braccia".
Altri fanno da sé. Si mettono lì, fanno la posta davanti
agli ambulanti. Si spostano in gruppi. Seguono la corrente dei muletti che
schizzano da un posteggio (gli stand dei venditori) all’altro, portano in giro
sempreverdi e primizie di stagione dappertutto nella ragnatela infinita dei
capannoni (145 imprese,160 produttori locali). Certe notti gli schiavi delle
cassette si accoltellano per mettere le mani su un bancale prima che arrivi un
altro. Una guerra dei poveri che deflagra negli anfratti bui che circondano i
capannoni.
Cinque minuti dopo le quattro sono di fronte al padiglione C
(sud). Giubbotto, berretto di lana, guanti da lavoro. E due braccia da
sfruttare. Tra gli stand delle cooperative che brulicano di venditori e
compratori e via Varsavia (dove ci sono le porte 3 e 4) si estendono i piazzali
di carico più "battuti": dal 59 al 63. E’ un ufficio di collocamento all’aperto.
Praticamente ci sono solo immigrati extracomunitari. Quelli già al
lavoro. Quelli che arrivano alla spicciolata dopo avere scavalcato la cinta
vulnerabile come una fetta di burro. Quelli che "comandano", e a cui si
appoggiano i verdurai per reclutare manodopera. Ci sono manovali e magazzinieri
"fantasma". Sono invisibili come lo sono – incredibilmente – i colleghi che
scavalcano da fuori. E nessuno che li fermi mai. Spuntano dalla cabina di carico
dei furgoni. Entrano nel mercato dalla porta principale, la 4, come clandestini,
nascosti dove poi verrà sistemata la merce. Via Lombroso è una groviera. Altro
che i tornelli promessi da Sogemi nel 2007, annunciati alle cooperative in
regola – che sono la maggior parte – e mai installati.
"Aspetta qui" mi
dice un marocchino sulla quarantina. Paziento tra i bagni fetidi del piazzale
62, un’autoambulanza e una fila di furgoncini. Guardo attorno. Il confine tra
l’essere qualcuno o qualcosa e il non essere niente è una fila di mini uffici.
Sono i box dei grossisti, disposti lungo il perimetro dei capannoni e anche
all’interno. Sono il punto d’approdo di molti "schiavi". I caporali e gli
ambulanti li ingaggiano sui piazzali e poi li obbligano a fare la spola tra i
camion e gli stand. C’è una confusione pazzesca.
Magari il problema
dell’Ortomercato fossero "solo" le tonnellate di eternit (tettoie, tubature,
rivestimenti) che il Comune in 43 anni non ha ancora rimosso; magari fossero
solo gli autoarticolati che arrivano da tutta Europa e, anziché fermarsi nelle
aree di sosta, si infilano nelle stradine che come arterie tagliano il ventre
molle del mercato. Di più. Il problema non è nemmeno e soltanto la criminalità
organizzata – camorra, mafia, soprattutto ndrangheta – che da vent’anni si
infiltra nel più grosso mercato alla distribuzione d’Italia (qui aveva messo
radici la cosca calabrese Morabito-Bruzzaniti-Palamara, che faceva partire
quintali di cocaina e che aveva aperto un night club nella palazzina della
Sogemi).
La vera piaga è il lavoro nero. Diffuso, trasversale,
tollerato, indisturbato. Un sistema che sembra far comodo a tutti. Dei 3mila
lavoratori dell’Ortofrutticolo si calcola che almeno la metà siano irregolari.
Ci sono cooperative che sembrano specializzate nell’offrire lavoro aumm-aumm;
alcune chiudono e poi riaprono sulle proprie ceneri. I titolari si
"ripuliscono", escono dalla porta e rientrano dalla finestra. E a poco valgono
gli sforzi di guardia di finanza, ispettorato del lavoro e sindacati.
Davanti all’ufficio di un grossista che si chiama come il frutto da cui
si ricava l’olio, sta per scoppiare una rissa tra egiziani e marocchini. Volano
insulti e spintoni. Si ribalta una pila di casse di kiwi. Il solito problema: la
guerra dei bancali. Valgono 50 centesimi quando sono carichi di roba. Una goccia
nel mare del giro d’affari del mercato (3 milioni di euro al giorno). Il lavoro
chiama. Il mio uomo, adesso, è un ambulante italiano, dieci anni di Ortomercato,
accento partenopeo intatto.
"Questo deve fare due viaggi", mi dice
indicando il vecchio furgone con la fiancata scrostata. Due viaggi "pieni". Vuol
dire che bisogna caricare la merce. Mi rimbocco le maniche. Siamo in tre, due
fissi, uno, l’ultimo arrivato, temporaneo (per stanotte mi chiamo Alberto e
vengo dall’Albania). Affondo in mezzo a muri di arance, cime di rapa, lattuga,
melanzane, banane, mele, cavoli. Nadil viene da Tunisi. Si è fatto quattro mesi
a San Vittore per spaccio. Adesso è qui a caricare: "Vengo ogni notte ed è
l’unico posto dove si trova lavoro senza problemi. Un paio di volte mi ha
fermato la polizia, ti cacciano fuori, ma la sera dopo ritorni".
Il capo
gira, controlla. Si allontana per trattare coi grossisti la merce da acquistare
e portare ai mercati rionali. Poi torna e chiede di fare in fretta. "Ragazzi,
qui si lavora… ". C’è chi aspetta il suo turno, qualche "briciola" da
raccogliere, qualche cassetta da impilare. E’ infrequente sentire parlare
italiano. Tra chi scarica, il rapporto italiani-stranieri è di uno a trenta. Se
non fosse per l’auto della polizia municipale e quella della vigilanza privata
Securitalia che ogni quarto d’ora tagliano questa folla di lavoratori in nero –
molti clandestini – senza battere ciglio, sembrerebbe di stare in un suk
africano. Nel caos, alle cinque e mezza, un muletto investe un ragazzo
marocchino (irregolare): frattura alle gambe, ricovero al Paolo Pini. Parte il
primo viaggio del "mio" furgone. Continuo a caricare.
Sono sotto un
altro "posteggiante". Un tipo tarchiato con gli occhiali che fa lavorare, a
giro, una decina di immigrati, qualcuno giovanissimo. Uno mi offre una manciata
di semi di finocchio. E’ l’alba. Al bar del capannone D ci sono un busto di
Mussolini e un poster del Duce. Dominano il bancone dall’alto. "Fino a qualche
anno fa – ragiona il vecchio operatore ortofrutticolo davanti al caffè – in
questi piazzali c’erano le cooperative regolari, adesso è uno schifo, un mercato
di schiavi che nessuno vuole o riesce a fermare". I padiglioni e i piazzali mano
a mano si svuotano. Gli ultimi tir escono che sono le 6. Ma c’è ancora il tempo
per tre ore di lavoro. Sono sempre lì a trasportare cassette. Le ordino sul
furgone. Con i miei colleghi africani ci capiamo a gesti. La cosa su cui
sembriamo più d’accordo è che, tutti noi, non vediamo l’ora che i furgoni escano
da qui per piazzare la merce nei mercati rionali. E che i "capoccia" sborsino il
misero salario per troppe ore di lavoro.
Alla fine
della notte, quando la luce del giorno rende ogni operazione meno facile, meno
fluida, l’ambulante mi chiama da parte. Dietro un camion. Mi paga. Quindici euro
per sei ore di carico. Due euro e cinquanta all’ora. Scavalco di nuovo la
barriera di ferro, il confine fra il suk e la città. Sempre lì, tra la 3 e la 4,
nello stesso punto da cui ero entrato. "Ciao Alberto, se vuoi ci vediamo
domani".
LE FOTO DELLA NOTTE AL MERCATO
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