Lo dico chiaramente: siamo precari innanzitutto. Certo, facciamo politica tutti i giorni, ci sbattiamo, organizziamo, contestiamo, aiutiamo, comunichiamo con decine, centinaia e durante la Mayday con migliaia di precari e precarie (non è solo nostro il merito, anzi!)
Allora perché ho esordito precisando che siamo innanzitutto precari e precarie? Mo’ ve lo spiego 🙂
Qualche anno fa si avviò un percorso chiamato “stop precarietà ora”. Ad esso aderirono consistenti parti della sinistra politica, sindacale e sociale. (pezzi di cgil, di sindacalismo di base, associazionismo, tutta la fronda partitica di sinistra del tempo, centri sociali, realtà in lotta)
Un vero e proprio fronte popolare che si proponeva senza mezzi termini l’abolizione del lavoro precario. Il percorso era articolato in due parti, una grandissima assemblea l’8 luglio e un corteo il 4 di novembre. La strategia politica era la più elementare possibile: creare un movimento in grado di esercitare pressioni sul governo Prodi.
Una tipica opera di lobbing per cancellare o limitare le leggi della precarietà: il pacchetto Treu e la legge trenta. I più estremisti puntavano ad intaccare la prima, i moderati si accontentavano della seconda. In mezzo a quest’insieme un po’ improbabile migliaia di giochi, giochetti, doppigiochismi tipici dell’ambiente collaudato e paludato della sinistra radicale e dintorni.
Ciò che è accaduto, per essere raccontato per bene meriterebbe molto più spazio certamente, ma questo riassuntino di poche righe mi basta per dire ciò che voglio.
Noi, come ChainWorkers, già avviati sulla strada della reticolarità precaria, partecipammo con un ragionamento semplice: “voi parlate di lavoro precario, noi parliamo, sì, di lavoro precario ma anche di precarizzazione. La precarizzazione è un fatto complesso, culturale, sociale, rappresenta un rapporto di forza, il modo con cui le aziende estraggono profitto non solo dai lavoratori, ma da tutto il corpo sociale, dai territori e dai beni comuni. L’ abolizione del lavoro precario, a nostro modesto parere, non si può fare. Non si può, cioè, affrontare la questione come se bastasse abolire due leggi per riportare tutto all’idillio degli anni ottanta” (eppoi, quale idillio?)
Lo scrivemmo in un volantino, concludendo il nostro ragionamento in questo modo:
“comunque siamo precari, se abbiamo torto, bene! Avete ragione voi e ci restituirete diritti e benessere. Se abbiamo ragione ci toccherà d’incassare l’obolo politico, pur rimanendo precari .”
E così ci presentammo al corteo, che fu un successo, ma che non bastò al percorso “stop precarietà ora” per giungere ai propri fini. Noi, presentammo un cedolino di rimborso , volutamente bastardo, in 5000 copie, che fece incazzare i servizi d’ordine e fece parlare la stampa. Un rimborso per quei precari come noi che si fecero lo sbatti di andare fino a Roma.
Da quel momento la Mayday si affermò come l’unico percorso nazionale attraversato dalle realtà in movimento che si poneva, anzi si pone tutt’ora su un piano di critica innanzitutto della precarizzazione che quindi cerca di darsi piani rivendicativi che non siano solo abolizionisti, ma anche capaci di agire dentro la realtà e di trasformarla, fin dalle viscere.
Se segui la Mayday 010 sai di cosa parlo
Mayday – My way
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