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L’emergenza ha sempre caratterizzato le decisioni salienti della politica italiana, soprattutto quando si tratta di tematiche socio-economiche. La politica dell’emergenza – si sa – è diventata lo strumento principale dell’arte del comando. Certo, da sola, rischia di non essere sufficiente, se non è accompagnata anche da una “predisposizione istituzionale” che accomuna maggioranza e opposizione, sotto l’egida del presidente della repubblica.
Nell’estate del 1992, la necessità di operare in fretta e firmare accordi capestro ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici (abolizione della scala mobile) era dettata dall’emergenza di entrare nell’Europa dell’euro.
Nell’estate 2011, la necessità di operare in fretta e promulgare leggi finanziarie draconiane, oltre ad accompagnarsi ad accordi sindacali, di nuovo a danno dei lavoratori e delle lavoratrici (ridimensionamento del contratto collettivo di lavoro) è dettata, invece, dalla necessità di non uscire dall’Europa dell’euro.
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Vi ricordate l’incontro San precario-Candidati Sindaco alla Casa della Cultura lo scorso novembre? Molti degli oltre 300 cittadini presenti non hanno scordato le parole di Giuliano Pisapia sulla precarietà. Incalzato da alcuni presenti l’ex parlamentare di Rifondazione Comunista aveva solennemente dichiarato tra lo sconcerto generale: ‘Eliminerò la precarietà a Milano’. A queste parole era seguita la condivisione di una lettera in cui prometteva quantomeno la risoluzione del problema per i precari del Comune di Milano e soprattutto per le migliaia di cittadini precarizzati dalle innumerevoli società partecipate da Palazzo Marino, che ricordiamo è il primo datore di lavoro della città. Senza parlare degli interinali, degli stagisti e delle centinaia di dipendenti di settori e servizi esternalizzati negli oltre 20 anni di giunte azzurroneroverdi, ormai fuori dai conteggi e dalle garanzie ancora previste dall’organigramma comunale. Prosegui la lettura »
Questa mattina alle ore 7.00 con la solita messinscena di mezzi e uomini in divisa, il cui costo e mantenimento è a carico del bilancio pubblico, è stato sgomberasto per la terza volta il F.O.A. Boccaccio 003.
Nulla di sorprendente. In una città come Monza e in una provincia coma la Brianza, rette entrambi da giunte forcaiole e corrotte, più intente a fare affari speculativi che pensare ai propri residenti, una simile azione non stupisce.
Viene meno, per il momento, un centro di aggregazione che aveva iniziato un percorso di analisi e azione sociale sul tema della condizione precaria, aprendo un Punto San Precario, inserito come altre realtà metrolombarde nel percorso degli Stati Generali della Precarietà e nella costruzione dello sciopero precario in autunno.
Nell’attestare la totale solidarietà al Boccaccio 003, siamo anche certi che nel giro di poco tempo un nuovo spazio autogestito sorgerà nell’area. Nulla di sorprendente, appunto. Soprattutto a fronte dell’acuirsi delle contraddizioni sociali e del lavoro che l’attuale situazione economica ha reso sempre più manifeste.
Per ogni spazio sociale e di pensiero critico che si chiude, altri ne fioriranno, soprattutto laddove la notte della ragione è sempre più nera e la stupidità del potere più diffusa!
San Precario
primo appuntamento: giovedì 7 luglio 2011 21.30.00 – Manifestazione contro lo sgombero – Luogo: Largo Mazzini davanti la Feltrinelli (Adiacenze staz. fs)
secondo appuntamento: rioccupazione!!! (in nottata tra il 7 e l’8 luglio 011)
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da ilfattoquotidiano di Claudia Campese
29 giugno 2011
Hanno gli stessi obblighi di un lavoratore subordinato ma in realtà la loro borsa prevede 750 euro al mese. “Devono ancora imparare”, si giustifica il direttore Silvio Garattini. “E intanto nessuno ci versa un euro di contributi”, denunciano i ricercatori
“Noi non conosciamo il fenomeno del precariato. In 50 anni non abbiamo mai avuto questo problema”. E’ fiero Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche ‘Mario Negri’. Il “direttorissimo” come lo chiamano i ricercatori del centro, che precari invece si sentono eccome. “Lì dentro di assunte ci sono solo le segretarie”, scherzano alcuni. E i capi, dirigenti e luminari di uno degli istituti italiani – un ente morale no profit – più prestigiosi e noti anche all’estero. I suoi lavoratori sono per lo più borsisti – circa 168 solo nella sede di Milano – che percepiscono 750 euro al mese. Alcuni da più di cinque anni, al di là di ogni ragionevole periodo formativo, ricordano. Laureati o dottorandi, alcuni con esperienze lavorative già maturate. Giovani che “quando arrivano non sanno fare nulla e hanno bisogno di aiuto e consiglio”, invece, per il professor Garattini. Borsisti che devono chiedere permessi, hanno orari rigidi e ferie programmate, ma non un contratto. “E intanto nessuno mi versa i contributi”, fa notare uno di loro.
“Lavorano otto ore come tutti, usano i laboratori e hanno a disposizione le attrezzature come gli altri”, spiega disinvolto il ‘direttorissimo’. “Ma non sono mica come i ricercatori dell’università che fanno anche lezioni ed esami”, aggiunge un po’ scandalizzato. Eppure “l’attività di laboratorio è un’attività pienamente lavorativa”, spiega Massimo Laratro, avvocato del Lavoro del collettivo ‘San Precario’, a cui si sono rivolti alcuni dei ricercatori del ‘Mario Negri’. Quello che si svolge al centro, continua, è un “chiaro rapporto di lavoro subordinato, dove si può pretendere e obbligare”. Al contrario di una borsa, dove si dovrebbe anche studiare, guardare e imparare.
E all’istituto di obblighi e pretese ce n’è parecchi. Tutti i borsisti sono dotati di un badge, con cui viene controllato che svolgano le loro otto ore giornaliere. Impossibile mangiare in fretta e uscire mezz’ora prima: la pausa pranzo è di un’ora, tassativa. Testimone la ‘strisciata’. “Il badge serve per ragioni di sicurezza, – si giustifica Garattini – per sapere chi è nella struttura e chi no”. “Nessuno ha un obbligo”, dice il direttore. Come quella collega di cui tutti raccontano. Una ricercatrice che, con regolare certificato medico, doveva uscire dieci minuti prima dell’orario di chiusura una volta alla settimana, per alcune visite mediche. Al momento del rinnovo per lei la borsa è stata tagliata: tre mesi anziché un anno. Perché all’istituto funziona così: continui permessi da far firmare ai capi per entrate, uscite o malattie; nessuna flessibilità sugli orari, nemmeno per i pendolari; l’obbligo di prendere le ferie ad agosto, quando l’istituto chiude e c’è meno lavoro. Regole, per altro, tramandate oralmente o poco più. “Non esiste nulla di scritto – racconta un borsista -, le comunicazioni ci vengono date solo via email”.
“Siamo divisi in laboratori e unità, con un diretto superiore e faccio quello che mi dice il mio capo”, racconta un altro ricercatore. Non proprio quello che gli era stato prospettato quando si è iscritto a uno dei diversi corsi che danno accesso alla borsa del ‘Mario Negri’. Come quello organizzato con la regione Lombardia, della durata di otto mesi – da ottobre a giugno – per tre anni. “Che poi al centro viene spalmata su 12 mesi”, continua il borsista. Dopo la scuola, che per Garattini serve ad “apprendere”, la situazione però non cambia. “Fossero solo tre anni potrei capirli – commenta un ricercatore -, ma io ormai lavoro qui da più di cinque anni”. E senza prospettive certe. “Qui è pieno di pensionabili e cariatidi che non si sa se vengano pagati o meno”, raccontano dal centro. “Una volta – continua un borsista – ho sentito uno dei capi che diceva: ‘Poverini, prendono troppo poco di pensione’ per giustificare la loro presenza”. E “io così sono costretto a stare ancora a casa con i miei – conclude – nonostante abbia trent’anni”. Anche perché per i borsisti sono previsti dei dormitori, ma per accedervi bisogna scalare 300 euro al mese alla loro busta paga da 750.
Il problema dal punto di vista legale, spiega Laratro, non è tanto la forma del foglio di carta firmato dai lavoratori – che li indica come borsisti -, ma la sostanza di come svolgono la loro giornata all’istituto. Tra capi, permessi e accesso ai laboratori, “la loro prestazione è continua – prosegue il legale -. Sono destinati a progetti che devono essere eseguiti in tempo e su cui devono relazionare”. Esattamente quello che fa un lavoratore assunto, con uno stipendio e dei contributi. E allora perché farlo? “Quello del ricercatore rientra tra i lavori ad alta vocazione – spiega Laratro -. Si accettano condizioni ignobili perché si crede in quello che si fa”. Nonostante venga “svalorizzato”. Tanto nel settore pubblico, quanto nel privato. “E’ vero, i cosiddetti baroni stanno all’università – conclude Laratro -, ma fuori è uguale”.
Ieri in Val di Susa una comunità ha assediato una fortezza. Ieri lo Stato ha risposto a questo assedio con più di mille candelotti di gas lacrimogeno.
Lacrimogeni sul corteo, lacrimogeni nel bosco, lacrimogeni ad altezza uomo, lacrimogeni in faccia alle persone.
Ieri in Val di Susa c’era la gente in azione. Una comunità composta da una miriade di modi diversi di approciarsi alla vita, persone che salutavano dalla finestra chi si avviava verso i sentieri, persone che urlavano di rabbia mentre i lacrimogeni gli arrivavano in testa, una comunità che soccorreva chi era intossicato, gente fiera di ciò che è e sarà, persone che hanno fiducia in se stesse e non nello Stato, un gruppo coeso che avanzava, scappava, rideva, urlava, piangeva, gente che tossiva, si inerpicava per i sentieri, una moltitudine che si riempiva il viso di succo di limone, una comunità che ama la sua terra, fatta di colori e odori, persone che lottano contro l’ingiustizia e la tracotanza, un popolo sudato e accaldato, una folla che gioiva appena sentiva una buona notizia, una comunità che, nelle sue mille sfaccettature, era unita e forte.
Ieri in Val di Susa c’era chi stava da una parte e chi stava dall’altra.
Ieri la Val di Susa era stupenda.
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