L’ultima tappa del giro di presentazioni della Mayday e dell’Intelligence Precaria sulla costa ovest americana è San Francisco. La città che con il resto della Bay Area (Berkeley e Oakland) fu uno degli epicentri della rivolta degli anni 60 è tuttora una delle capitali dei movimenti sociali e del radicalismo americani. Alcune similitudini con l’Europa sono ben visibili. Una rete di centri sociali, non occupati e sempre adibiti ad abitazione prima che a spazi per la comunità. Ma centri sociali. Un movimento di occupazioni di case. La tradizione di sinistra che qui resta forte. San Francisco è una città in cui il Partito Repubblicano potrebbe evitare di presentarsi alle elezioni e risparmiarsi l’umiliazione di percentuali da Udeur fuori da Ceppaloni, e in cui i giochi veri si fanno tutti all’interno del Partito Democratico.
Eppure questo non significa che le condizioni della città siano paragonabili a quello che accade in una città europea. La possibilità di trasformazioni radicali è ben lontana… anche se l’accesso alla sanità pubblica è più semplice e l’assegno di disoccuppazione è più alto della media nazionale, per esempio, la povertà estrema è incredibilmente diffusa. Non ci sono case per chi non ha i soldi per permettersele, e la popolazione di homeless è oggetto di repressione crescente. Una proposta del sindaco liberal Newson sarà sottoposta a referendum tra un mese, e se passasse vieterebbe di… sedersi per strada, con ovvie rieprcussioni sulla capacità della polizia di reprimere a sua discrezione chi sta per strada.
Mi hanno invitato alla Station 40, un ex ufficio postale nella Mission (il quartiere latino e militante di SF) riadibito a comune abitativa e spazio per eventi sociali. La sera della presentazione la sala è piena, ci sono una trentina di persone provenienti anche da Berkeley e Oakland. La risposta è ottima, e le domande vanno avanti per quasi due ore, prima di trasferirci in un caffé nella Mission. Tra il pubblico ci sono appassionati della tradizione autonoma italiana; ex redattori di Processed World, la rivista (cofondata da Chris Carlson) che negli anni 80 aprì il dibattito sui lavoratori della conoscenza nella Silicon Valley; italiani espatriati per lavorare come ricercatori precari a Berkeley; giovani attivisti che stanno cercando di rilanciare le lotte dei lavoratori; e ovviamente kids anarchici del centro sociale. C’è chi cerca di orientare il dibattito sull’opposizione tra precari politicizzati e sindacati che funzionano come cooptatori dei lavoratori nelle dinamiche del capitale. Ma per fortuna c’è anche chi è più interessato al legame tra le teorie sulla precarietà, il ruolo dei media, il ricatto e il consenso che soggiogano precari e precarie, e le strategie possibili per uscire dal tunnel.
La proposta di welfare è difficile da comprendere in una nazione in cui queste domande sono state cancellate dal panorama politico decenni fa. Ma piace l’idea di usare il reddito garantito come leva per il cambiamento sociale: forzare le aziende ad alzare il livello di diritti e salari, e rimettere nelle mani dei precari la possibilità di fare conflitto nella sfera della produzione. Su questo punto, il conflitto, vedo scoramento ma anche alcune esperienze interessanti in una città in cui ogni tipo di lotta ha cittadinanza, dall’ecologismo alla pace ai diritti civili.
Alcuni ragazzi di Oakland – bianchi nella ex capitale nera della West Coast – stanno cercando di rispondere allo smantellamento delle scuole nella loro città, e per farlo stanno creando un’alleanza tra lavoratori, studenti e genitori. Un progetto interessante che parte da una scuola che fu incubatore per la Black Panthers. L’indomani ci sarà un’occupazione a downtown San Francisco, il gruppo Creative Housing Liberation occuperà un albergo nella Tenderloin, la parte più povera della città, a due passi dal centro finanziario. Infatti è il World Homeless Day e la protesta simbolica – di più non si può fare a SF – si conclude dopo una notte con tutti gli occupanti che scappano da sotto al naso della polizia intervenuta in forza per sgomberare l’hotel.
Io approfitto della giornata extra e dell’incredibile estate ottobrina della California per visitare i musei all’aperto della contestazione degli anni 60. Il campus di Berkeley è colmo di memorabilia di quegli anni ma ora ha davanti a se una dura lotta contro i tagli alla ricerca e all’università in generale (ricorda nulla?) in cui gli studenti non riescono a liberarsi del peso dei docenti ex-sessantottini e del loro paternalismo. Il 7 ottobre una prima data di mobilitazione che doveva replicare le grandi e radicali manifestazioni che l’anno scorso hanno scosso tutto il sistema della UC, l’Università della California, da Berkeley a Santa Cruz a Los Angeles, è riuscita solo in parte. Come mobilitare studenti che pagano 20-30.000 $ all’anno per iscriversi a un’università che un tempo garantiva loro un posto in paradiso e che ora invece li sbatte nella precarietà con sulle spalle gli enormi debiti che qui tutti contraggono col governo federale? Avranno mai un lavoro abbastanza buono da poter ripagare i 40, 50, 60.000 dollari di debito che hanno sulle spalle?
Probabilmente proprio il sistema dei prestiti e il costo dell’università sono le leve giuste per mobilitare gli studenti. Però dovrebbero anche trovare un termine per tradurre “barone” in inglese e scrollarsi di dosso il paternalismo pompiere dei prof ex-radicali che tutto guadagnano da rette universitarie (anche se l’anno scorso UC ha tagliato gli stipendi dei professori del 7%, vi immaginate una cosa del genere in Italia? I nostri baroni non pagano mai), precarietà del corpo docente che lavora per loro e mancanza di messa in discussione delle gerarchie accademiche. In ogni caso è molto difficile saldare le lotte studentesche con quelle dei lavoratori, soprattutto perché Berkeley è tornata a essere università di elite quasi priva di studenti latinos e neri.
A volte, come nel caso dei bibliotecari di Antropologia che hanno tenuto aperta la bilbioteca nel fine settimana per permettere agli studenti di tenere le assemblee senza incorrere in arresti, l’amalgama funziona. Ma non succede spesso. Vicino al campus la gente fa la fila per farsi fare l’autografo da Ben di Ben&Jerry, la megacorporation del gelato hippie e pacifista che ha sponsorizzato alla grande l’elezione di Obama ed è un simbolo della svendita dei valori delle controculture alla cultura aziendale. Giusto per rimanere nel passato, vado nel deprimente quartiere di Haight/Ashbury e giro la sua lunga fila di negozi di chincagliera pacifista per turisti europei, old hippie con barba bianca e occhialini alla John Lennon e la marea di ragazzini che ancora vengono qui per sentire il profumo della Summer of love.
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