lettera43.it – 03 Dicembre 2011
La proposta Fornero costerebbe 8 miliardi.
Reddito minimo garantito. Le tre paroline magiche sono risuonate nella bocca del ministro del Welfare, Elsa Fornero, che ha deciso di dare una speranza agli italiani, ormai consapevoli che il governo più che riempire le loro tasche le svuoterà. Davanti agli entusiasmi, Fornero ha però precisato che la sua è una «preferenza personale che non impegna il programma del governo». Per ora comunque la proposta è stata fatta. E potrebbe essere rivoluzionaria.
UN DIRITTO PER LA COMMISSIONE EUROPEA. Anche solo per il fatto che l’Italia è l’unico Paese insieme con Grecia e Ungheria a non avere questa misura. Nonostante fin dal 1992 la Commissione europea abbia adottato una risoluzione (n. 441) in cui è stato definito il reddito minimo garantito (la disponibilità delle risorse minime necessarie per vivere una vita libera e dignitosa) come un diritto sociale fondamentale. E abbia esortato gli Stati membri a istituire un quadro giuridico che garantisca questo diritto.
Il Parlamento europeo ha più volte sottolineato l’urgenza che tutti gli Stati membri introducano schemi di garanzia del reddito minimo (detto anche reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, renta minima, basic income), per coloro che sono a rischio di esclusione sociale: giovani in attesa di prima occupazione, disoccupati e persone in condizione di marginalità, attribuendo a ognuno almeno il 60% del reddito medio riferito a ciascun Paese (oltre a misure aggiuntive come aiuti o tariffazioni agevolate per gas, luce, affitti e trasporti o per spese straordinarie e urgenti).
Dai 613 euro del Belgio ai 1.044 del Lussemburgo
Le cifre base variano di Paese in Paese: circa 613 euro in Belgio, 425 in Francia, 645 in Irlanda, fino ai 1.044 del Lussemburgo.
BASIC INCOME NETWORK. In Italia, per ora, non c’è. Ma a studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a sostenere l’introduzione di un reddito garantito sono i sociologi, gli economisti, i filosofi, i giuristi e i ricercatori del Basic income network Italia, che da anni definiscono la misura «imprescindibile per costringere gli Stati e gli organi dell’Unione europea a una gestione della crisi economica internazionale improntata all’equità e alla giustizia sociale».
Tra questi c’è Andrea Fumagalli, docente di Economia politica all’università di Pavia, che raggiunto da Lettera43.it ha definito la proposta della Fornero un «grande passo avanti», rispetto soprattutto al silenzio assordante che in questi anni è risuonato nella stanze del governo.
Il ritardo italiano a causa del boicottaggio dei sindacati
«Finora non se n’è mai parlato perché non c’è mai stata la volontà politica di affrontare il problema», commenta l’economista. Nonostante dal punto di vista economico ci siano stati molti studi che hanno dimostrato la validità della misura, «si preferisce ancora una struttura di ammortizzatori sociali molto differenziata che viene gestita a livello corporativo».
L’OBBLIGO DI INTERMEDIAZIONE POLITICA. Gli ammortizzatori infatti, dai sussidi di disoccupazione, alle liste per ottenere l’indennità di mobilità e fino alle varie forme di cassa integrazione, «richiedono una intermediazione politica, invece il reddito minimo garantito no».
Il timore dei sindacati, degli enti bilaterali e territoriali «di perdere il loro potere di veto nel determinare l’accesso agli ammortizzatori» ha quindi determinato questo ritardo rispetto al resto d’Europa. Anche se negli ultimi tempi una parte del sindacato, come la Flc-Cgil (Federazione lavoratori della conoscenza) o i metalmeccanici della Fiom si sono espressi a favore, resta il fatto che la misura è stata per anni boicottata per interessi di parte, che poco hanno a che vedere con il bene dei lavoratori.
Basterebbero 8 miliardi per attuare la misura
Non si spiega altrimenti il ritardo su una misura che garantirebbe a più persone un reddito minimo. Secondo Fumagalli le attuali forme di sostegno al reddito in caso di perdita involontaria del posto di lavoro riescono infatti «a coprire meno del 25% delle persone che si trovano in questa situazione e quasi tutto il mondo del precariato ne è escluso».
UNA POLITICA DI ASSISTENZA AL REDDITO. Un limite a cui si aggiunge che in Italia manca qualsiasi distinzione tra politiche di previdenza e di assistenza al reddito. «Queste ultime dovrebbero essere invece finanziate con la fiscalità generale dello Stato anziché essere parzialmente coperte con il bilancio dell’Inps», osserva Fumagalli.
Inoltre molti hanno sempre rifiutato l’idea di elargire un reddito minimo garantito per una questione di cassa. Ma in realtà quanto costerebbe una misura di questo genere?
GARANTIRE IL MINIMO DI 600 EURO AL MESE. Nel numero uno della rivista Quaderni di San Precario gli economisti hanno fatto una stima secondo la quale arrivare a garantire a tutti i residenti in Italia un livello di reddito pari alla soglia di povertà relativa (che è di circa 600 euro al mese, con variazioni a secondo della regione), richiederebbe al massimo 25 miliardi di euro.
«La misura però», sottolinea Fumagalli, «sostituirebbe una serie di aiuti frazionati che già lo Stato stanzia per una cifra di circa 15 miliardi». Quindi facendo i conti, il costo netto sarebbe «di 7-8 miliardi di euro, una cifra abbastanza abbordabile».
Come funziona negli altri Paesi
Finora nei Paesi europei la forma di intervento di reddito minimo è di tipo condizionato, «ovvero chi accede a queste misure deve in qualche modo contro ricambiare o attraverso l’obbligo di accettazione di una forma di lavoro, qualunque essa sia, o accettando percorsi di formazione per far sì che la sua condizione precaria raggiunga livelli di stabilità», racconta Fumagalli, «Un modello a cui si ispirerà anche Fornero».
Ma l’economista suggerisce invece un modello incondizionato. Secondo Fumagalli bisogna infatti tener presente «che oggi viviamo in un mondo in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro è sempre più difficile da definire anche quando si ha un contratto».
LE ATTIVITÀ PRECARIE NON REMUNERATE. Ci sono poi tutta una serie di attività soprattutto precarie, come lo stage, che addirittura non vengono remunerate. «Prestazioni produttive di valore che non sono certificate come attività lavorative e questo è un problema». Ecco perché per Fumagalli le forme di garanzie di reddito dovrebbero essere non condizionate per evitare che non venga riconosciuta quella capacità produttiva eccedente.
In Francia, per esempio, «il reddito minimo garantito viene dato a prescindere dalla condizione professionale, non solo ai disoccupati», spiega, «ma deve essere accompagnata dal salario minimo per evitare l’effetto dumping», spiega Fumagalli.
FISSARE UN MINIMO SALARIALE ORARIO. Un modello, quello francese, che l’Italia potrebbe prendere a esempio, «serve però un intervento legislativo che stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di un certo tanto». Il rischio è infatti che chi ha un reddito minimo ma non un salario minimo, diventi vittima del datore di lavoro che può abbassare il costo della prestazione richiesta approfittando del fatto che il lavoratore ha già il reddito minimo dato dallo Stato.
In Italia però questa misura non esiste «per l’opposizione dei sindacati che hanno sempre sostenuto che se venisse fissato un salario minimo questo toglierebbe importanza ai contratti collettivi di lavoro», spiega Fumagalli.
Ma questo aveva un senso quando i contratti collettivi coprivano la stragrande maggioranza delle prestazioni lavorative e decidevano quindi il salario minimo, «ma visto che oggi abbiamo la metà della forza lavoro che non è contrattualizzata, specie nel terziario, non ha senso».
Meglio studiare un modello di “secur flexibility” anzichè di “flexsecurity”
Infine se mai la misura sarà inserita nel programma del ministero del Lavoro, bisognerà riflettere sul fatto che sarà controbilanciata da interventi di ulteriore flessibilità del mercato del lavoro attraverso la logica della flexsecurity «che prevede una prima fase di flessibilizzazione del mercato del lavoro in modo da aumentare la competitività delle aziende e generare quel reddito necessario per finanziare la sicurezza sociale. «Un meccanismo che ha funzionato in alcuni a Paesi come la Danimarca dove però c’è un contesto produttivo diverso».
PRIMA LA SICUREZZA, POI LA FLESSIBILITÀ. In Italia sarebbe invece più utile parlare di «secur flexibility», dice Fumgallli, ovvero flessibilizzare il mercato del lavoro solo dopo aver garantito la sicurezza sociale attraverso forme di reddito minimo. Un processo che metterebbe in moto un circolo virtuoso, «Invece in Italia negli ultimi 20 anni si sono fatti processi di flessibilizzazione rimandando a dopo il tema della sicurezza sociale e la riforma degli ammortizzatori».
La scusa è sempre stata la stessa: mancano i soldi, c’è il debito pubblico, servono politiche di austerity. «Così abbiamo creato solo un circolo vizioso per cui la produttività viene messa a rischio da un eccesso di precarizzazione del lavoro e questo ha minato anche la capacità di accumulazione, ritorcendosi contro lo stesso capitalismo».
di Antonietta Demurtas
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